Ventinove dicembre 1964. Il parlamento in seduta comune elegge il nuovo capo dello Stato, dopo l’uscita di scena di Antonio Segni, formalmente dimessosi a inizio mese ma di fatto bloccato dopo l’ictus che lo ha colpito di agosto. Giuseppe Saragat, socialdemocratico, viene eletto dopo ben ventuno scrutini. Ottiene 646 voti su 963.
Il candidato ufficiale della Dc è Giovanni Leone (lo resterà fino al 14° scrutinio), che deve però fare i conti con Amintore Fanfani, del suo stesso partito. Il capo del governo, Aldo Moro, intende fermare la sua corsa e per questo convoca Carlo Donat-Cattin, leader della corrente Forze Nuove. Gli spiega il suo obiettivo ma lascia all’esponente Dc la scelta dei mezzi tecnici. Usciti da palazzo Chigi Donat-Cattin con una battuta spiega la linea ai suoi colonnelli: “I mezzi tecnici sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”. Leone prende atto che il partito non lo vuole e fa un passo di lato, aprendo la strada alle trattative che portarono Saragat sul Colle. In seguito Saragat nominerà Leone senatore a vita, forse anche come segno di riconoscenza per il passo indietro fatto che aprì la strada alla sua elezione.
Nato a Torino nel 1898, figlio di un avvocato della Gallura (Sardegna) trasferitosi in Piemonte, Giovanni Saragat poco dopo il diploma in Ragioneria fu richiamato alle armi e partecipò alla Prima guerra mondiale come tenente di artiglieria. Laureatosi in Scienze economiche e commerciali, entrò alla Banca Commerciale italiana.
Dopo aver assorbito le idee liberali trasmessegli dal padre, nel 1922 Saragat decise di sposare la causa del socialismo riformista di Filippo Turati, aderendo al Partito socialista unitario (il cui segretario era Matteotti) che nacque dopo l’espulsione dal Psi dei cosiddetti “gradualisti”. Primo partito a essere sciolto dal fascismo, con Claudio Treves e Carlo Rosselli lo ricostituì in forma clandestina con un nuovo nome, Partito Socialista dei Lavoratori italiani. Fuggito in Francia, a Parigi ritrovò Turati, Treves, Nenni e altri esuli italiani. Fu proprio in quegli anni che nacque l’espressione “cari nemici”, per descrivere il rapporto tra Saragat e Nenni. Tornato in Italia nel 1943, finì in carcere come sovversivo e ne uscì dopo che il nuopvo capo del governo Badoglio liberò i prigionieri politici. Direttore del clandestino Avanti!, rinato quotidiano socialista, esponente di spicco della Resistenza, con Nenni e Pertini stabilì un patto tra Psi e Pci. Finì di nuovo in carcere, con l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi. Condannato a morte, uscì in modo rocambolesco da Regina Coeli grazie a un’azione organizzata nei minimi dettagli (con tanto di timbri trafugati e lettere false) da Giuliano Vassalli. Ripresa l’attività politica in clandestinità, tornò a occuparsi dell’Avanti!
Ministro senza portafoglio nel governo Bonomi II (1944), tra il 1945 e il 1946 fu ambasciatore a Parigi. Rientrato in Italia fu eletto all’Assemblea costituente, che presiedette fino al ’47.
La scissione di Palazzo Barberini
Strenuo oppositore dell’asse Pci-Psi, fu tra i protagonisti della scissione di Palazzo Barberini, che portò alla rottura con il Fronte popolare. Da sinistra partirono le accuse, durissime, nei suoi confronti. Arrivarono a definirlo social fascista, traditore e rinnegato. Il suo Partito socialista dei lavoratori italiani (poi Psdi) entrò nell’alleanza con la Dc. Convintamente atlantico (il Patto fu siglato nel 1949), Saragat in realtà fu messo in minoranza dal suo stesso partito, la cui maggioranza mai avrebbe voluto rompere in modo definitivo con il Psi.

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