L’avvocato Livio Bacciocchi l’hanno arrestato all’ingresso del casello autostradale di Rimini agli inizi di febbraio. Tra i professionisti più in vista del Titano, 53 anni, Bacciocchi sapeva di essere nei guai. Almeno da quando, lo scorso luglio, gli ispettori della Banca centrale di San Marino avevano cominciato a mettere il naso nei conti della Fincapital, una finanziaria specializzata nelle operazioni di leasing, di cui lui è risultato essere l’amministratore occulto. L’avvocato aveva gestito con assoluta discrezionalità, e senza passare per il cda, una girandola di prestiti erogati ad alcune immobiliari sull’orlo del dissesto. Un vortice di denaro che aveva portato la Fincapital ad accumulare 54,2 milioni di euro di sofferenze, pari all’«80% del totale degli impieghi», «quattro volte e mezzo il suo patrimonio», come si legge nella relazione di vigilanza pubblicata dal quotidiano L’Informazione. Al punto da arrivare al commissariamento e alla messa in liquidazione coatta della Fincapital, tra Natale e i primi dell’anno. Eppure, nonostante il suo nome fosse stato associato ad alcuni metodi di recupero crediti coercitivi, nonostante a suo carico fosse pervenuta pure una rogatoria dalla Procura di Napoli per un’inchiesta su presunte frodi carosello legate alla camorra, Bacciocchi non immaginava certo di finire a San Vittore. E invece da più di due anni il Nucleo tributario della Guardia di finanza di Terni lo teneva nel mirino, nell’ambito di un’indagine che aveva già portato all’arresto di un noto imprenditore umbro, Marco Moroni, per l’accusa di bancarotta fraudolenta. Una brutta storia di società fallite (come la milanese Punto) e di fondi distratti attraverso raffiche di assegni postdatati le cui tracce conducevano tutte allo stesso domicilio sammarinese: in via Tre Settembre, località Dogana, dove hanno sede sia lo studio di Bacciocchi che la Fincapital. E così uno degli studi notarili più prestigiosi della Rocca si è trovato al centro dell’ennesimo scandalo. Uno scandalo che minaccia di compromettere ulteriormente le già difficili relazioni con l’Italia, dopo il commissariamento da parte di Bankitalia del Credito di Romagna e della Cassa di risparmio di Rimini (più le rispettive controllate, l’Istituto bancario sammarinese e il Credito industriale sammarinese), e l’offensiva lanciata dal ministro Giulio Tremonti contro la fiscalità privilegiata della Repubblica di San Marino. Prima con lo scudo fiscale, che ha fatto rientrare ben 5 miliardi dei 14 depositati sui conti della piccola enclave romagnola, provocando una crisi di liquidità (-35%) che ha rischiato di far saltare l’intero sistema bancario locale, con i suoi 12 istituti di credito, una cinquantina tra finanziarie e fiduciarie e altrettanti intermediari assicurativi. E poi con il decreto incentivi, che ha imposto a tutte le società italiane in rapporti con il Titano di comunicarlo all’Agenzie delle entrate, al fine di sottoporsi a controlli periodici per contrastare le truffe sull’Iva e le false compensazioni. L’obbligo si è tradotto in una sorta di embargo, con un conseguente crollo delle esportazioni verso il nostro Paese. Tanto che, spiega Elena Michelotti, presidente della locale Camera di commercio, «molte aziende sammarinesi sono state costrette a trasferire la parte commerciale a una commissionaria in Italia per continuare a lavorare oltrefrontiera». Altre se ne sono andate e basta, mentre chi non ce l’ha fatta ha chiuso. Nel giro di un anno sono sparire più di 400 imprese (quasi il 7% del totale, per oltre la metà nel settore immobiliare), si è registrata una forte impennata nel ricorso alla cassa integrazione (coinvolta un’azienda su tre) mentre la disoccupazione, un tempo sconosciuta in questo paradiso offshore che non conta nemmeno 32 mila abitanti, ha superato il tasso ragguardevole del 6%. «Dopo anni di crescita sostenuta», ha sottolineato il capo dell’associazione degli industriali sammarinesi, Paolo Rondelli, nella sua relazione di fine anno, «per il nostro pil si è verificato un vero e proprio tracollo di 12,5 punti percentuali», con un balzo all’indietro «ai valori del 2005». La crisi ha investito certo «tutti i settori economici», ma ha colpito più pesantemente proprio quei comparii che avevano fatto da traino allo sviluppo della Rocca, e cioè banca-finanza e mattone. SENZA REGOLE. E in questo contesto già difficile che è piovuta la tegola Fincapical. Un affaire che rischia ora di avere un duplice effetto domino sull’economia del Titano, per le sue possibili ripercussioni sul sistema creditizio-finanziario e su quello delle costruzioni. Perché la galassia societaria di Bacciocchi era coinvolta in almeno 70 cantieri aperti sulla Rocca. Secondo una stima, l’80% delle concessioni edilizie sammarinesi faceva capo direttamente o indirettamente all’avvocato, che con una mano tirava su case usando finanziamenti di banche del posto, e con l’altra prestava soldi agli acquirenti. Un intreccio che potrebbe rivelarsi esplosivo e sta agitando l’opinione pubblica locale. E tutto questo mentre l’attuale maggioranza di governo, il Patto per San Marino, una fragile coalizione tra democristiani, moderati e socialisti (con appena un voto di scarto sull’opposizione), stretta dalle necessità di bilancio e dall’isolamento internazionale, è costretta ad adottare misure impopolari. Come l’ultima finanziaria, una manovra che per dimezzare il deficit pubblico ha introdotto una serie di nuove imposte, come una tassa sui beni di lusso (yacht e auto di grossa cilindrata), un’addizionale del 15% su tutti i redditi, più un prelievo del 9% sulle buste paga degli oltre 6 mila lavoratori non residenti che quotidianamente fanno i pendolari con il Titano. Una stangata che ha scatenato malumori e reazioni di piazza, fino allo sciopero generale dello scorso 14 dicembre, uno dei più violenti che si ricordino qui, culminato con il lancio di uova contro il Palazzo del governo. Successivamente sono scesi in campo anche gli imprenditori, che hanno annunciato uno sciopero fiscale per protestare contro la prevista trattenuta a carico dei transfrontalieri. «Il sistema sammarinese si è sviluppato in assenza quasi di regole», osserva un ex banchiere che chiede l’anonimato. «Era un modello facile, ci limitavamo a fare da cassaforte, bastava solo che i soldi in arrivo non comparissero». «Ora questo modello è diventato insostenibile», aggiunge, «un terzo della liquidità è sparito, ma non si vedono alternative. E la responsabilità è tutta della politica». SCONTRO POLITICO. Il precedente vertice della Banca centrale di San Marino, guidato da Biagio Bossone, aveva tentato di riformare il sistema, scontrandosi presto con le resistenze dell’attuale esecutivo, fino al suo azzeramento. Dopo di che si è tornati all’inerzia di sempre, alla lentezza e alle collusioni delle istituzioni del Titano (gli ultimi quattro provvedimenti degli organi di vigilanza bancaria sono stati puntualmente respinti dal tribunale). Fino all’ennesima offensiva giudiziaria dell’Italia, con l’arresto di un’altra figura di primo piano della realtà sammarinese, incidente che ha fatto emergere, come denunciano da Sinistra unita, uno dei raggruppamenti delle forze di opposizione, la «grave carenza di credibilità» delle autorità politiche e giudiziarie locali. Per uscire da questa impasse, con un governo ormai quasi in stallo, tra una durissima crisi economica e l’accerchiamento internazionale, un manipolo di imprenditori, sindacalisti e politici si è fatto promotore di un referendum sull’adesione della Repubblica di San Marino all’Unione europea. Una consultazione popolare che si terrà il prossimo 27 marzo, ma non raccoglie i favori dell’attuale maggioranza. «Abbiamo il sostegno della Confindustria locale, dei sindacati e dei partiti d’opposizione», osserva con rammarico Patrizia Busignani, del Comitato promotore, «ma non del governo, che sembra già aver fatto una scelta diversa». L’esecutivo in realtà ha istituito un gruppo di lavoro per vagliare costi e benefici di tutte le opzioni a disposizione, anche del solo ingresso nello spazio economico europeo o del mantenimento della condizione di Stato terzo, precisa il segretario di Stato agli esteri, Antonella Mularoni. «C’è chi crede che un’adesione all’Ue ci aiuterebbe a superare le attuali difficoltà con l’Italia», continua il ministro. «Ma intanto Bruxelles deve ancora chiarire la sua posizione nei riguardi dei microstati, e poi ci vorranno anni prima di far parte dell’Europa». La querelle con Roma, insomma, è destinata a continuare ancora per un po’.
Sandro Orlando – Il Mondo