Il 23 giugno 2016 sarà ricordato nei libri di storia come un momento chiave: l’esito inatteso del referendum sull’Unione Europea ha causato costernazione in Europa e un terremoto politico in Gran Bretagna. Esattamente sei mesi dopo Brexit, però, c’è poca chiarezza sia sulle tappe di marcia che sulla destinazione finale del percorso di uscita di Londra dalla Ue. «Nonostante le tante voci, dopo sei mesi è sconcertante che non sappiamo ancora cosa significhi Brexit – afferma Anand Menon, professore di Politica europea a King’s College, London. – In verità da quel dì fatale di giugno ci sono state solo chiacchiere».
Per fare chiarezza sulla situazione attuale, e delineare le prospettive future per la Gran Bretagna e l’Europa, un gruppo di accademici britannici esperti in settori diversi, riuniti sotto la direzione di Menon, ha scritto un rapporto dal titolo «Brexit: six months on», coordinato da The UK in a changing Europe e dalla Political Studies Association. Vediamo quindi, punto per punto, cosa è successo in questi sei mesi e cosa potrebbe accadere nel 2017.
Politica britannica
Il referendum ha portato al periodo più tumultuoso nella vita politica britannica dalla Seconda guerra mondiale: entro poche ore dal voto il primo ministro ha dato le dimissioni, il partito conservatore si è diviso in una lotta fratricida per la successione a David Cameron, il partito laburista si è spaccato e lo spettro dell’indipendenza scozzese è tornato ad aleggiare a Westminster. Dopo poche settimane è stata nominata una nuova premier, non eletta, Theresa May, che ha formato un Governo molto diverso dal precedente con la creazione tra l’altro di due nuovi ministeri, quello per l’Uscita dalla Ue e quello del Commercio internazionale.
«Nonostante questi eventi sismici, i cambiamenti sostanziali da giugno a adesso sono stati ben pochi – spiega Simon Usherwood, docente all’Università del Surrey –. Il Governo sembra avere articolato solo una serie di aspirazioni scollegate e in conflitto tra loro, sottolineando la totale mancanza di un piano strategico». Non è neanche chiaro chi sia responsabile per Brexit, sia da un punto di vista politico che tecnico, mentre la May è ormai definita ‘la sfinge’ per le sue dichiarazioni vaghe e risposte sfuggenti sul tema.
Per quanto riguarda l’opinione pubblica britannica, dopo lo shock iniziale di Brexit, c’è stato un sussulto di rimorso, definito ‘regrexit’, tra alcuni elettori. Sei mesi dopo, il pentimento sembra essere svanito e il Paese resta diviso a metà esattamente com’era in giugno, secondo i sondaggi.
Politica europea
Il referendum ha rivelato profonde divisioni in Gran Bretagna, ma sembra avere avuto l’effetto di unire gli altri Paesi europei, facendo ritrovare loro una comunità di intenti da tempo assente. «I 27 ritengono che il Governo britannico stia operando in modo opportunistico, tenendo conto solo degli interessi britannici e senza prendere in considerazione i problemi e le priorità europee – sostiene Sara Hagemann, docente alla London School of Economics –. Brexit ha quindi unito i 27 e indurito la loro posizione verso Londra, e ha anche fatto aumentare il sostegno per la Ue in diversi Stati membri».
L’atteggiamento più duro verso Londra è dimostrato dal fatto che anche Paesi tradizionalmente amici e alleati ideologici come la Danimarca di recente hanno preso le distanze da Londra. La posizione comune dei 27 è che le quattro libertà di movimento sono inscindibili e nessuno sembra disposto a fare concessioni in tal senso alla Gran Bretagna. «Il Governo britannico – conclude la Hagemann -, si trova in una posizione di debolezza verso i partner europei».
Economia
L’economia britannica non è entrata in recessione dopo lo shock di Brexit come temuto, ma ha anzi dimostrato una grande resistenza, con una fiducia dei consumatori elevata. Il problema è che l’impatto di Brexit si sentirà sul medio termine e sarà negativo: l’indebolimento della sterlina sta già portando a un aumento dell’inflazione e quindi del potere d’acquisto degli inglesi, che avrà ripercussioni sui consumi. La posizione attendista di molte imprese e la mancanza di investimenti dovuta all’incertezza avranno un impatto sull’occupazione.
«Sarebbe ardito dire che l’economia britannica ha superato indenne Brexit – afferma Iain Begg, docente alla London School of Economics –. L’immagine che ho in mente è quella di Willy Coyote che salta dal precipizio e continua a correre prima di rendersi conto che sotto di lui c’è il vuoto». Inoltre Brexit costerà caro alle finanze pubbliche già in crisi: secondo i calcoli ufficiali 12 miliardi di sterline all’anno per i prossimi cinque anni. E come ciliegina sulla torta la Commissione minaccia di presentare un “conto di fine rapporto” salato a Londra che potrebbe arrivare a 60 miliardi di euro.
Immigrazione
Le dichiarazioni più esplicite del Governo britannico negli ultimi mesi sono state sull’immigrazione: la May e altri ministri hanno ribadito di volersi «riprendere il controllo delle frontiere». Londra vuole poter decidere chi ha il diritto di entrare e vivere in Gran Bretagna. L’obiettivo è dimostrare a chi ha votato a favore di Brexit che il numero di immigrati dalla Ue (335mila lo scorso anno) scenderà sensibilmente. Quello che non è chiaro è come questo verrà realizzato, e se ci saranno accordi transitori o preferenziali per i cittadini Ue. Finora la May si è rifiutata di garantire il diritto a restare dei cittadini Ue che vivono e lavorano in Gran Bretagna da anni, dicendo che deve essere una garanzia reciproca, estesa quindi in contemporanea ai cittadini britannici residenti nella Ue.
Commercio
Il Governo britannico ha ribadito di voler «guardare al mondo» e stringere accordi commerciali con Paesi extra-europei, ma non ha chiarito che tipo di rapporto vuole avere con i Paesi Ue. Le imprese britanniche hanno chiesto di restare nel mercato unico per evitare tariffe e il settore finanziario teme la perdita dei diritti di passporting, che consentono a ogni società di operare in un altro Paese Ue senza dover aprire una filiale. Secondo Angus Armstrong, direttore del National Institute of Economic and Social Science, il Governo sembra propendere per un’uscita dal mercato unico ma tenterà di raggiungere accordi speciali di libero scambio, soprattutto sui servizi finanziari. La Gran Bretagna potrebbe continuare a partecipare ad alcuni programmi Ue come Horizon 2020 e Erasmus e potrebbe continuare a fare versamenti al budget Ue.
Aspetti legali
L’immensa complessità di Brexit non viene ancora compresa dal Governo o tantomeno dall’opinione pubblica, secondo Catherine Barnard, docente all’Università di Cambridge. Il primo passo dal punto di vista legale è la sentenza della Corte Suprema britannica, attesa in gennaio, che stabilirà se sarà il Parlamento o il Governo ad avere l’ultima parola su Brexit. Data l’importanza della questione, per la prima volta tutti e undici i giudici della Corte Suprema emetteranno il verdetto. La previsione degli esperti è che sarà un verdetto unanime e che si allineerà con l’opinione dell’Alta Corte che aveva sancito la supremazia del Parlamento in materia.
Oltre alla questione del ruolo del Parlamento, c’è il problema del coinvolgimento dei tre Stati semi-autonomi del Regno Unito: Galles, Irlanda del Nord e Scozia. L’Irlanda del Nord vuole mantenere un confine aperto con la repubblica irlandese, mentre Galles e Scozia si sono già espressi a favore di restare nel mercato unico. Il Governo di Edimburgo ha appena pubblicato il suo piano di azione per restare nel mercato unico anche se l’Inghilterra dovesse uscirne, minacciando un altro referendum sull’indipendenza.
Dopo i negoziati
La Ue ha dichiarato che non ci saranno negoziati paralleli con Londra su accordi futuri dopo Brexit: prima si devono concludere le trattative di uscita. Data la complessità e il numero di questioni da esaminare, però, è probabile che i due anni previsti non bastino. «Ci sono voluti nove anni per l’accordo tra Ue e Canada, quindi è probabile che si sarà un abisso tra il momento del divorzio e un accordo sui rapporti futuri – spiega Barnard –. Questo vuoto potrà essere riempito da accordi di transizione». Il problema è che, come sancito ieri dalla Corte europea sui rapporti con Singapore, ogni accordo dovrà essere approvato non solo d Bruxelles ma da tutti i Parlamenti nazionali e regionali dei Paesi membri, complicando la cosa e allungando i tempi.
I prossimi sei mesi
Se gli ultimi sei mesi hanno portato poca chiarezza, i prossimi sei mesi sono invece cruciali. In gennaio ci sarà la sentenza della Corte Suprema britannica e si saprà se il Parlamento avrà voce in capitolo. Entro marzo la May dovrebbe invocare l’articolo 50, come si è impegnata a fare, e partiranno quindi i negoziati formali di uscita con Bruxelles, che in teoria si dovrebbero concludere entro due anni. Londra dovrà finalmente rivelare le sue carte, delineare la sua strategia negoziale e chiarire quali sono i suoi obiettivi. «Nonostante la fissazione della stampa britannica con l’articolo 50, il momento cruciale dei prossimi sei mesi sarà la risposta della Ue – spiega Armstrong –. Può darsi che si arrivi al solito compromesso che non soddisfa nessuno. Ma se gli europei sono uniti nel ritenere che Londra viva nel mondo dei sogni, potrebbe esserci una resa dei conti molto prima del previsto». Il Sole 24 Ore