IL GOVERNO, che ormai al Senato ci ha messo le tende, dal ministro Maria Elena Boschi fino ai sottosegretari Luciano Pizzetti e, soprattutto, Luca Lotti, ha mangiato la foglia. «Tira una brutta aria – spiega un verdiniano – e non solo per colpa della campagna acquisti di Denis Verdini dentro FI. Ncd sta franando, Gaetano Quagliariello è in uscita e altri cattolici oltranzisti con lui: forse andranno con Raffaele Fitto. Certo è che una gamba del governo, nel giro di poco, rischia di venir meno».
L’input che arriva è chiudere, e subito, sul Senato, ma anche accelerare sulle unioni civili, da cui il nuovo testo della Cirinnà che, per i moderati e cattolici centristi, equivale a un pugno nell’occhio. L’accordo con la minoranza dem e l’accettazione delle sue richieste, sui punti ancora aperti della riforma del Senato, è scontato e arriva a ruota.
E così, se il ddl Boschi ha ripreso a marciare spedito, macinando articoli su articoli (solo ieri ne sono stati approvati ben cinque: 12, 13, 14, 16 e 17), è solo grazie al nuovo accordo siglato dentro il Pd.
La maggioranza più larga, invece, i segni di cedimento li manda di buon mattino, per colpa dei centristi: 143 voti, il numero più basso da quando si è iniziato a votare l’articolo 1 (177 i voti sul celebre ‘canguro’ Cociancich) su un emendamento M5S e soli 17 voti lo spread con le opposizioni. Le quali, però, ieri hanno vissuto la loro giornata più nera, finita con la Lega che abbandona l’Aula, Forza Italia che rimane da sola a scrivere al capo dello Stato Sergio Mattarella, i grillini che insultano gli azzurri, rei di presunto ‘patto del Nazareno ter’.
Succede tutto a metà mattina, quando si vota un emendamento della minoranza dem (prima firmataria la senatrice Dirindin) sullo stato di guerra: il testo chiede che serva e sia specificata la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea (la sola Camera, in futuro), mentre il testo del governo non specifica il quorum.
Anna Finocchiaro interviene per spiegare che s’intende comunque maggioranza assoluta dei componenti, ma le opposizioni sperano nel colpaccio. FI, però, con Paolo Romani, si schiera con il governo «per ragioni di merito» e l’emendamento non passa. Il voto finisce con 165 ‘no’ a favore del governo (29 di FI compresi) e 100 sì, i voti degli azzurri non sono decisivi – si affretta a spiegare il Pd, seguito da Romani – ma lo è la divisione (costruita ad arte) della minoranza dem – 14 votano per il sì, ma 12 si astengono – e i soliti verdiniani.
IL MESSAGGIO è chiaro: «Senza di noi, rischiate grosso o vi serve FI, altro che Verdini».
E così, come per incanto si materializza l’intesa tra maggioranza e minoranza dem sull’elezione del capo dello Stato. I voti per il governo risalgono, tornando a quota di sicurezza propria sull’articolo 21 (161 i sì) mentre le opposizioni, che si attaccano con rabbia tra loro, lasciano l’Aula. La Lega va oltre e dichiara l’Aventino fino al voto finale e oggi un sit-in contro Grasso e Boldrini.
