
Propongo questo bel Twitter di Cristiana Capotondi e provo a dare una risposta a chi questo docu-film l’ha visto e ne ha tratto una buona impressione. Sul film e su Muccioli insieme.
E si stupisce del mio sdegno.
Posso capire.
Credo di comprendere il loro punto di vista da spettatori esterni.
Il film è fatto bene, mette in luce la sua personalità, la sua opera, i suoi errori. Dicono alcuni.
Non è proprio così. Mi spiace.
Una Comunità di recupero dalle droghe è un organismo delicato. Fragile.
Li dei ragazzi vanno per cercare di tornare a vivere.
E prima di andarci attraversano un percorso lungo e doloroso.
Il mondo dello spaccio, la fabbrica della dipendenza, i pusher che ti danno la dose per sopravvivere un momento, ti convincono che la Comunità è il male. L’inferno. Chi coltiva la tua dipendenza demonizza il luogo che può restituirti la tua indipendenza.
Per chi spaccia la Comunità è il luogo che si oppone al suo piccolo o grande business. E chi spaccia molto spesso è anche dipendente dalla droga.
E il momento più difficile di un percorso di dipendenza è accettare di poter smettere. Di andare in una Comunità.
Ci vuole una grande forza di volontà per decidere questo.
Molti preferiscono il carcere alla Comunità. Li trovano “amici” del loro stato di dipendenza che è anche di delinquenza, a volte, molte volte.
La Comunità è nemica.
È vista come un dramma peggiore, fa paura.
Tutto questo mal si concilia con discussioni da “esterni” al dramma. Superficiali a volta. Non per colpa, ma per poca conoscenza.
Allora, io non ce l’ho( più di tanto) con Netflix o con la regista o con la dimensione “artistica” dell’opera.
Io non penso, non ho mai pensato, che bisognasse nascondere le “criticità” della storia di San Patrignano. Assolutamente.
Ma questa seria mette al centro le “criticità” e da credito a chi è ampiamente screditato. Chi ha visto perdere in tribunale le sue tesi e le sue calunnie e i tentativi di ricatto. Di chi lascia credere ci fosse stata una “morbosità” sessuale, fra le ragioni delle attività di Muccioli.
O come chi, penso al giornalista di Repubblica, ancora, come allora, è protagonista di una campagna d’odio e di cattiverie, che tanto male ha fatto alla Comunità. Per fare alcuni esempi.
Le criticità diventano, nel film, “tenebre”, “crime”. E ne connotano buona parte della storia.
Ma è questo che la produzione voleva fare.
Un prodotto della serie “luce e tenebre” e “crime”.
Quando i responsabili di San Patrignano l’hanno capito si sono sottratti. E loro si sono rivolti a chi gli ha permesso di creare quel prodotto. Per quel mercato. Con qualche eccezione. Alla regola.
Hanno sorvolato San Patrignano con i droni. Pensate.
Io non ce l’ho con loro.
Più di tanto.
Devono vendere. Stanno facendo su questo prodotto una campagna pubblicitaria che non si era mai vista prima.
Ce l’ho con chi commenta senza capire che quella non è la storia, ma un prodotto commerciale. Ed in quanto tale parziale e forzato commercialmente. Ce l’ho con chi si è prestato a questa forzatura. Senza capire l’impatto drammatico che questa lettura parziale, molto parziale, di San Patrignano ha su chi li lavora. Su chi li cerca di tornare a vivere. Su chi li cerca di convincersi ad andare. Sulle loro famiglie.
Sugli equilibri fragili, delicati, drammatici di chi non sa se il nemico è il carcere o la Comunità.
Sulla tenuta stessa di una struttura complessa e costosa che è sempre alla ricerca di risorse per vivere. Sopravvivere.
E senza la giusta reputazione è tutto più difficile. Molto difficile.
Per tutto questo il mio sdegno.
Sergio Pizzolante
