
Il dado è tratto: Matteo Renzi e Italia Viva hanno dichiarato guerra aperta a Giuseppe Conte e al suo governo col ritiro dall’esecutivo della compagine ministeriale della formazione liberale guidata dal senatore toscano ed ex premier. L’uscita dal governo di Teresa Bellanova, Elena Bonetti ed Ivan Scalfarotto non ne producono immediatamente la caduta, ma la crisi aperta da Iv si ripercuoterà sulle prospettive politiche della maggioranza e sul futuro stesso di “Giuseppi” come presidente del Consiglio.
La battaglia tra Renzi e Conte, in queste settimane, é stata senza esclusione di colpi. Fin troppo. Il premier del governo giallorosso e il suo predecessore a Palazzo Chigi hanno portato avanti una vera e propria guerra di nervi che ha esacerbato gli asti personali, le rivalità, le ostilità personali che covavano da quando, ai tempi dell’esecutivo gialloverde, Renzi definì Conte e i suoi “cialtroni populisti” e si sono acuite dopo che nel 2019 l’avvocato pugliese divenuto leader politico riuscì a conservare la poltrona dopo l’ingresso del Pd al governo. Ora tutti i nodi vengono al pettine: Renzi ha caricato a testa bassa Conte sull’adozione del Mes, sul Recovery Fund, sui progetti per il futuro del Paese. Con durezza, ha utilizzato politicamente il dossier intelligence e sfruttato le ingenuità di Conte sul tema. Aprendo le critiche sulla hybris e il centralismo del premier Renzi ha fatto notare quanto, in fin dei conti, l’inquilino di Palazzo Chigi gli somigli nella sostanza dello stile e nella (ridottissima) cultura istituzionale.
Ora Renzi col ritiro improvviso di Italia Viva dal governo rischia seriamente di mandare a sbattere Conte. Che in caso di caduta dell’esecutivo si troverebbe di fronte alla necessità di fare forti concessioni a un partito con cui ha già detto di voler tagliare i ponti, con conseguente perdita della faccia, o alla tortuosa caccia ai “responsabili” in Parlamento per salvare la poltrona. A testimonianza di quanto la guerra di Renzi a Conte sia personale, faccia a faccia, una partita a poker dove entrambi i giocatori sono in all-in. E non conta più chi abbia le maggiori fiches, cioè il premier, e chi possa invece farsi forza soprattutto col ruolo di ago della bilancia.
Cui prodest? In politica questa domanda non deve mancare mai nel contesto dell’analisi. E vale anche per il lungo e snervante “stallo all’amatriciana” condotto sulla pelle del Paese da Conte e Renzi, intenti a giocare una sfida di poltrone, nomine e prestigio personale minuto nel pieno della seconda ondata pandemica. L’impressione è che Renzi possa aver avuto più motivazioni: una comprensibile sete di potere da parte dei suoi compagni di partito, il timore che un Conte rafforzato e radicato in apparati come l’intelligence potesse sfruttare per ambizioni politiche personali la sua posizione, la volontà di lucrare sul carattere imbelle di Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico, che lo hanno lasciato protagonista sulla scena. Ma guardando più in fondo l’accanimento di Renzi per ridimensionare e mettere all’angolo Conte ha probabilmente motivazioni più profonde. Che coincidono con le ambizioni personali di quello che ama farsi chiamare “senatore semplice” del Mugello.
C’è una nazione a cui Renzi guarda, gli Stati Uniti. Una nazione che é stata citata, in relazione ai recenti fatti del Campidoglio che Conte non avrebbe condannato con la dovuta fermezza, nella conferenza stampa della rottura col governo. I nuovi Usa targati Joe Biden hanno diversi motivi per considerare Conte una zavorra. Pesano gli abboccamenti con Cina e Russia nell’era gialloverde, già stigmatizzati da Trump. Ma pesa soprattutto il legame personale che univa l’inquilino uscente della Casa Bianca e “Giuseppi”, così soprannominato proprio nel tweet con cui Trump si augurava la sua riconferma a capo del governo nel contesto della crisi agostana del 2019. I referenti italiani dei democratici Usa vedono come sovrabbondante la presenza di Conte e si ritengono essi stessi i principali depositari dell’influenza proveniente da Oltre Atlantico. Già coltivata per mezzo dell’ambasciata in seno all’esecutivo con occhio particolare a Enzo Amendola e Lorenzo Guerini.
In fin dei conti, il gioco di scaricamento di Conte, in questa fase, può fare comodo anche al Pd sul piano dei rapporti transatlantici. E può fruttare a Renzi la conquista di quella che è ritenuta sottovoce la sua maggiore ambizione: la carica di Segretario della Nato promessagli da Barack Obama. Il coronamento del suo cursus honorum, in un certo senso, che mai la via politica ordinaria gli potrebbe garantire, essendo Italia Viva ancorata a un misero 3% nei sondaggi politici. Perché, dunque, non mandare a schiantare Italia Viva e Conte e acquisire credito per il bersaglio grosso di Bruxelles? Maria Elena Boschi, non a caso, a dicembre sottolineava che Renzi possiede, a suo parere, tutte le qualità per un ruolo del genere.
Che sia ben riposta o no, la maggiore speranza su cui Renzi può contare è quella della benevolenza di un presidente amico, ex vice di un suo stretto alleato. Da Matteo Renzi ci possiamo aspettare di tutto, persino che la possibilità di mandare a schiantarsi un governo per un ambizione con vista 2022 sia vera. L’esatto e simmetrico contraltare di quanto Conte puntava a fare, cioè ad andare alle estreme conseguenze sulla nomina ai servizi. Parliamo di una lotta di potere e poltrone dai contorni ancora molto vaghi. Se non fosse nel pieno mezzo di una pandemia da 80mila morti in meno di un anno e senza soluzioni certe di breve termine in vista, potrebbe strappare persino una risata. Ma il riso è reso amaro dal teatrino che si gioca sulla pelle di 60 milioni di italiani.
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