Sforbiciatina alle tasse

L’intesa sulla riforma fiscale riguarda un compromesso distributivo sulle aliquote Irpef. Ciò che manca è invece una revisione dei metodi di accertamento, per cui oggi è il contribuente a dover provare la propria innocenza, soprattutto per gli studi di settore e il catasto. Né sono stati affrontati il principio contributivo puro per le pensioni, il groviglio di addizionali e tributi locali, i problemi per il mercato immobiliare creati dalle imposte di registro del 9% sui trasferimenti. Si perpetra inoltre un’altra stortura: continuare a considerare «ricco» chi guadagna 50mila euro l’anno.

Questo modesto compromesso sulle aliquote è metodologicamente errato, perché non tiene conto del fatto che le minori aliquote generano più gettito. Ciò è particolarmente vero per le aliquote sopra il 35%: il tetto a cui si ferma la progressività effettiva in Germania, Francia, Usa e Regno Unito. L’aliquota del 43% non esiste in alcun Paese libero e genera gravi distorsioni, è sproporzionata. Solo stipendi e pensioni di lavoro molto qualificato cadono sotto il 43%. Per questo Berlusconi pose il tetto al 33% quando scese in campo. Una scelta che avrebbe un effetto positivo sulla crescita del Pil e un maggior gettito. Più alta è la pressione tributaria e maggiore l’evasione, con operazioni in nero e il ricorso a «paradisi fiscali» dentro l’euro (Lussemburgo, Olanda, Irlanda) e fuori (Vaticano, Svizzera, Regno Unito, Isole del Pacifico, America).

In un Paese con una ampia evasione stimolata dall’eccesso di peso fiscale e dal dirigismo nel mercato del lavoro, la riduzione di aliquote ha ampi effetti sul gettito. È stata ignorata la teoria di Einaudi secondo cui l’ottima imposta non è quella neutra, che non esiste, né la redistributiva, perché questo compito spetta alla spesa pubblica, ma quella con effetti favorevoli per la ricchezza e per il prodotto nazionale. Ottima è l’imposta che rispetta il risparmio e premia la produttività: due grandi assenti al tavolo di ieri.


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