Storia del naufragio del Garau, autore libro chiede verità

(di Giovanni Franco) (ANSA) – MAZARA DEL VALLO, 06 FEB – “Nel naufragio sono morte
persone, parecchie altre sono ‘decedute’ pur rimanendo in vita.
    A costoro, a tutti, si deve la verità”. È l’appello lanciato nel
libro “Massimo Garau, la vera storia del naufragio”, (edizioni
Libridine, pagine 268, 19 euro) scritto da Gaspare Bilardello,
imprenditore e genero dell’armatore Giuseppe Quinci da tutti
chiamato “Pino Mazara”, morto nel 2017, che fu il proprietario
dell’imbarcazione attrezzata per la pesca oceanica, iscritta al
compartimento marittimo di Mazara del Vallo. Nella sciagura
avvenuta la sera del 16 febbraio 1987 nel mar Mediterraneo
morirono 19 marinai quattro italiani e quindici africani,
regolarmente imbarcati e dipendenti della società armatrice
proprietaria della nave.
    “La Basilica di Mazara del Vallo era stracolma di gente la
mattina del 22 febbraio del 1987, lo era in ogni ordine di
posto. – racconta l’autore – Più di diecimila persone dentro e
fuori la chiesa per assistere ai funerali degli unici quattro
corpi recuperati nella scialuppa di salvataggio del
motopeschereccio che scomparve nel canale di Sicilia nel tratto
di mare tra Capo Bon e l’isola di Pantelleria. Per quindici
marinai, successivamente dichiarati dispersi, il mar
Mediterraneo divenne per sempre il luogo del riposo”.
    Questo è un lungo racconto, ricorda Nicola Cristaldi nella
prefazione al volume, “in cui scorrono fatti e ipotesi, fantasie
popolari che uccidono la verità qualunque essa sia”. Già perché
sull’affondamento del peschereccio sono state avanzate tante
teorie. Dopo diversi mesi dalla scomparsa, tra congetture
sospetti, illazioni, ricostruzioni fantasiose, la barca da pesca
viene individuata ad 83 metri di profondità, adagiata sul
fondale marino tra Tunisi, e l’isola di Pantelleria, e solo dopo
dieci anni riportata in superficie.
    Nella vicenda si delinea, inesorabilmente, come in molti altri
misteri italiani, l’ombra del depistaggio. Le piste da
approfondire furono tante. Una superpetroliera speronò nelle
nebbie del Canale il peschereccio? Un ammutinamento? Un pauroso
incendio distrusse lo scafo? Un assalto in mare di chissà quali
pirati del Mediterraneo o di un’ unità navale straniera? Un vero
intrigo. E ancora qualcuno ipotizzò un fantomatico traffico
d’armi?
Anche Paolo Borsellino, allora procuratore indagò sul mistero.
    Ma chiuse le indagini, in quegli anni, archiviando il caso,
ritenendo, comunque, che solo attraverso il recupero del
peschereccio e dallo studio del relitto si sarebbe potuto
arrivare a una soluzione che desse una spiegazione certa delle
cause del naufragio. Nel 2005, il processo penale a Quinci e
all’ingegnere Giuseppe Genovese, ex funzionario del Registro
navale di Trapani, si concluse, in Cassazione, con la
prescrizione del reato contestato di omicidio colposo plurimo.
    Ma oltre alla querelle legale sul risarcimento ai familiari
delle vittime, rimane il giallo di questa storia lunga 36 anni,
rimasta senza soluzione.
    “I segni evidenti di uno speronamento sono impressi sul relitto
e gli stessi ci riportano inequivocabilmente ad una collisione
con un mezzo navale, sia esso militare o altro. – scrive
Bilardello – Ma nella sentenza civile di condanna dell’armatore,
è esclusa questa causa. La speranza, affinché giustizia possa
davvero esser fatta, è che qualcuno che sa, che conosce, si
decida a parlare. Solamente un fatto nuovo può riaprire il caso
del naufragio del peschereccio. Si facciano avanti con coraggio,
coloro che sanno, lo stesso coraggio che da sempre animava i
valorosi marinai del Massimo Garau”. (ANSA).
   


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