
Il piano vaccinale procede, con scontri a suon di studi tra scienziati, aziende e Cts. Il generale Figliuolo dopo aver raggiunto l’obiettivo di 500mila dosi al giorno punta a raggiungere quota un milione. E per farlo ha ovviamente bisogno di quante più fiale disponibili. Il problema è che di vaccini non ne abbiamo in numero infinito, ma sono pochi e da usare con parsimonia. Per procedere a passo svelto il generale ha allora bisogno di utilizzare anche le circa 3 milioni di dosi Pfizer tenute in frigo in attesa dei richiami. Pochi giorni fa il ministero lo ha accontentato: una circolare “allontana” la seconda somministrazione a 42 giorni di distanza, e non più 21 come previsto dal bugiardino, quindi le Regioni possono procedere senza preoccuparsi dei richiami imminenti. La decisione, però, ha fatto storcere il naso ad alcuni scienziati. E ne è nato uno scontro tra cervelli.
In particolare la Pfizer ieri si è detta contraria all’ipotesi di protrarre l’attesa tra il primo e il secondo giro. Sia nel caso di Pfizer che per Moderna, infatti, il foglietto illustrativo parla chiaro: la seconda somministrazione va fatta, rispettivamente, dopo 3 e 4 settimane dal primo giro. “Come azienda diciamo di attenersi a quello che è emerso negli studi scientifici – ha spiegato ieri Valentina Marino, responsabile medico della filiale italiana – perché questo garantisce risultati che hanno permesso l’autorizzazione”. Allungare l’intervallo tra le due dosi sarebbe un errore perché “il vaccino è stato studiato” su un intervallo di 3 settimane e “dati su un più lungo range al momento non ne abbiamo”. In fondo anche l’Aifa aveva fissato a 3 e 4 settimane l’attesa per i due vaccini a Rna. E sul suo sito le indicazioni non sono ancora cambiate. Perché allora Speranza ha permesso questa rivoluzione?
La motivazione è “logistica”: occorre incrementare il numero di immunizzati col primo giro, quindi vada pure per un cambio delle regole in corsa. Il 9 aprile la Commissione dell’Aifa, interpellata da Figiuolo, non si era dimostrata così sicura della bontà di ignorare le indicazioni arrivate dalle aziende. In un parere scritto aveva infatti “ribadito” che “l’intervallo ottimale tra le dosi” per Pfizer e Moderna è di 21 e 28 giorni e che dilazionare era possibile solo “in caso di necessità”. Senza comunque superare i 42 giorni. Come a dire: fatelo pure, se proprio volete, ma il gold standard resta quanto studiato in fase di sperimentazione.
Il parere dell’Aifa è stato poi scavalcato, e ribaltato, da un pronunciamento del Cts del 30 aprile, ripreso infine da una circolare ministeriale del 5 maggio. Visto che “rimane una quota significativa di soggetti non vaccinati”, scrivono gli esperti, e nonostante gli “studi registrativi” indichino intervalli precisi per i due vaccini a Rna, “è raccomandabile un prolungamento nella somministrazione della seconda dose nella sesta settimana”. Alla base del ragionamento vi sono alcune “osservazioni”. Primo, allungare l’attesa “non inficia l’efficacia della risposta immunitaria”. Secondo, dopo la prima dose nasce già “una efficace protezione maggiore dell’80%”. Terzo, si ritiene “opportuno dare priorità a strategie di sanità pubblica che consentano di coprire dal rischio il maggior numero di soggetti nel minor tempo possibile”.
Bene. L’unico dubbio restano le parole del responsabile medico di Pfizer: “Dati su un più lungo range – diceva – al momento non ne abbiamo”. Chi ha ragione? Franco Locatelli, presidente del Css e membro del Cts, difende la decisione del ministero. “Studi della vita reale che si sono andati ad accumulare”, spiega, assicurano che prolungare l’attesa “non inficia minimamente l’efficacia dell’immunizzazione”. Anzi: “Affermazioni come quelle che abbiamo sentito ieri da Pfizer rischiano solo di creare sconcerto e credo che sarebbero auspicabilmente evitabili”. L’azienda americana, va detto, oggi ha fatto una leggera marcia indietro, affermando di non potersi “discostare da quanto approvato dalle autorità regolatorie”, ma precisando che questo “non può escludere assolutamente che le autorità sanitarie possono raccomandare dosaggi alternativi per motivi di sanità pubblica”. La decisione, insomma, spetta ai governi. Ma nel caso succedesse qualcosa di avverso, ca va sans dire, non intendono assumersi alcuna responsabilità.
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