ESSENDO notoriamente l’Italia un paese senza memoria, nessuno ha ancora pensato di dedicare una delle piste che hanno fatto la storia della Coppa del Mondo ad Alberto Tomba. In Francia si sono ricordati di Killy, in Svezia di Stenmark, persino di Ochoa in Spagna. Ma ad AT certe miserie non interessano: preferisce occuparsi dei 50 anni del Circo Bianco. «Domani, sabato, la stagione ricomincia sul ghiacciaio di Solden – mi dice interrompendo un allenamento di footing, perché cura il fisico come una volta –. Mezzo secolo di storia giustifica qualche ruga, eh. Ma vedrai che lo spettacolo non mancherà».
Forse sarà uno spettacolo con poco azzurro.
«Mah, non so, recentemente non ho seguito molto le nostre squadre. Certo manca l’entusiasmo dei miei tempi, però ragazzi e ragazze meritano un augurio sincero».
Sei d’accordo con chi dice che l’austriaco Hirscher è il tuo erede, il Tomba 2.0?
«C’è chi lo pensa ma i paragoni non mi interessano tanto. Di sicuro tra i protagonisti del nuovo millennio l’austriaco è formidabile, ma rispetto alla mia era è cambiato tutto».
Attrezzi compresi.
«Certamente. Quando vinsi la mia prima gara in Coppa, al Sestriere, in gigante usavamo sci lunghi più di due metri! Era il 1987, stava ancora su il muro di Berlino, non so se mi spiego. C’è stata una evoluzione clamorosa, che rende difficili gli accostamenti. Ma caratterialmente mi piaceva un sacco Bode Miller, l’americano. Non ho capito se si sia ritirato o mediti di tornare sulla neve, era matto come un cavallo ma che campione!».
Hai citato il Sestriere. E’ la pista che hai amato di più, nella tua vita in Coppa?
«Non farei distinzioni, ho vinto anche sulla Gran Risa in Val Badia, che era strepitosa per il gigante, e ovviamente a Madonna di Campiglio, sul Canalone Miramonti. Anzi, guarda, se proprio dovessi abbinare il mio nome a un tracciato, ecco, forse sceglierei Campiglio».
La storia cinquantennale della Coppa del Mondo di sci ha anche regalato enorme popolarità a molte località turistiche.
«Ci sono nazioni che hanno per gli sport della neve una sorta di devozione religiosa. Prendi l’Austria, lì niente è importante come Kiztbuehel. Ma anche la Germania, non so spiegarmi perché ma i tedeschi mi adoravano, per loro ero un mito».
Forse li affascinava la combinazione tra un asso dello slalom e le tagliatelle al ragù.
«Boh, comunque in Germania la neve per le gare la sapevano preparare. Non come in America, dove ho vinto spesso, mi volevano bene, ma facevano un po’ di confusione tra un rodeo e una gara di sci».
Quanta nostalgia hai di questa Coppa che compie 50 anni e riparte con i due giganti di Soelden, uno per le donne e uno per gli uomini?
«Nella vita bisogna guardare avanti, non indietro. Io sono l’ultimo italiano ad averla conquistata, ormai venti anni fa. Sai, speriamo che in giro ci sia un bambino che ha in testa l’idea di imitare me, come io imitai Thoeni e Gros…».
