Trentatre anni dopo la strage di Capaci: una ferita che non smette di bruciare

Oggi, 23 maggio, non è un giorno qualunque per l’Italia. Ogni anno, questa data riporta alla mente uno dei momenti più drammatici e simbolici della lotta alla mafia: la strage di Capaci. Era il 1992, e quel pomeriggio di primavera si trasformò in una tragedia che ha segnato per sempre la coscienza collettiva del Paese.

A premere il pulsante fu Giovanni Brusca, nascosto su una collina con vista sull’autostrada, dove era stato collocato mezzo quintale di tritolo. L’esplosione devastò il tratto di strada su cui stava transitando il convoglio blindato del giudice Giovanni Falcone, in viaggio da Punta Raisi verso Palermo.

In quel violento attentato persero la vita Falcone, sua moglie Francesca Morvillo – anche lei magistrato – e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Giuseppe Costanza, che si trovava alla guida dell’auto su cui viaggiava Falcone, riuscì miracolosamente a sopravvivere.

La bomba fu predisposta con precisione criminale: nascosta sotto un tunnel dell’autostrada e innescata da remoto, venne costruita da Pietro Rampulla, l’artificiere dei Corleonesi. La potenza dell’esplosione fu tale da sventrare la carreggiata e scaraventare le auto a decine di metri di distanza.

Oggi, a distanza di 33 anni, il ricordo di quel giorno continua a vivere attraverso cerimonie, mostre, iniziative educative e testimonianze. Ma soprattutto attraverso l’impegno di chi ha raccolto l’eredità di Falcone, trasformando il dolore in determinazione e memoria attiva.