Dopo Mustafà Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna, Recep Tayyip Erdogan è indubbiamente il personaggio politico che ha inciso maggiormente nella storia contemporanea dell’antica nazione dei Sultani.
Una carriera politica in costante ascesa, malgrado l’incarcerazione nel 1998 (dieci mesi) per avere pronunciato i famosi versi del poeta Ziya Gokalp “le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati”. Sindaco di Istanbul 1994-1998, Primo Ministro dal 14 marzo 2003, Presidente della Repubblica dal 28 agosto 2014. Fondatore dell’Akp, Partito della Giustizia e dello Sviluppo, ha avviato il cosiddetto criptoislamismo modificando gradualmente l’assetto costituzionale di natura laicista instaurato da Ataturk nel 1923.
Amico di Silvio Berlusconi è però riuscito a conquistare il favore popolare grazie alla crescita economica che ha raggiunto standard da tigre asiatica. Un miglioramento del livello generale di vita che ha enormemente facilitato la realizzazione delle riforme istituzionali che hanno introdotto l’elezione a suffragio universale del Capo dello Stato, statuito la nomina dei Giudici della Corte Costituzionale da parte dell’esecutivo, avallato l’introduzione di normative che vietano alcolici e tabacchi, autorizzano il velo anche in luoghi pubblici, prevedono sovvenzioni per le scuole coraniche.
Il vero e proprio capolavoro di Erdogan è il ridimensionamento del ruolo delle forze armate che, custodi dell’ortodossia kemalista incentrata sul mito del vatan (patria), hanno pesantemente condizionato la vita politica turca dal 1960 in poi, con tre colpi di stato militari (1960, 1971, 1980). Dove avevano fallito Menderes, Demirel, Ecevit, Ozal, Ciller, Yilmaz, Erbakan è invece riuscito lui. Un egida che non si è solamente dissolta ma che è stata addirittura sottoposta a giudizio penale. Gli ex capi di stato maggiore protagonisti del golpe del settembre 1980 sono stati incarcerati, processati, condannati alla detenzione perpetua parimenti al comandante supremo dell’esercito e ad altri alti ufficiali, accusati di un tentato pronunciamento nella primavera del 2012.
Negli orientamenti di politica estera Erdogan è decisamente ondivago e ambiguo. La Turchia siglò un accordo di associazione con l’allora Cee nel 1963 ma è rimasta fuori dalla porta dell’Europa, nonostante le negoziazioni deliberate dalla Dichiarazione di Copenhagen del dicembre 2002. Probabilmente l’adesione di Ankara, che viene ufficiosamente motivata con la cortina fumogena del paventato pericolo musulmano, è osteggiata dalla Germania in quanto la Turchia avrebbe quasi un eguale peso, avendo 79 milioni di abitanti contro gli 84 tedeschi e soprattutto una superficie di 780 kmq che doppia i 357 teutonici.
Uno stallo che ha rinvigorito la tendenza neottomana e panislamista nelle relazioni diplomatiche, determinando uno strappo in seno alla Nato, di cui è membro dal 1949. La caduta del Muro di Berlino ha trasformato le organizzazioni internazionali da consessi esclusivi ad inclusivi perché il rigetto delle sfere di influenza e dei soggetti a sovranità limitata ha logicamente comportato la definizione di nuovi scenari. In varie occasioni Iraq 2003, Siria 2011, Isis 2014 il governo turco ha negato l’utilizzo della base di Incirlik agli Usa e si è rifiutato di intervenire a sostegno dei curdi. L’irrisolta questione curda, il rifiuto a riconoscere il genocidio armeno, l’empasse con l’Ue ha rinverdito posizioni di rottura con gli organismi a cui Ankara aderisce che rievocano la “politica della sedia vuota”, esercitata da Parigi nel 1966 nei rapporti con la Cee, o il cosiddetto “gollismo dell’Est”, praticato dalla Romania di Ceausescu che si era dissociata dal Patto di Varsavia come la Francia di De Gaulle dalla Nato.
Salvatore Occhiuto