Una pace a metà, l’Irlanda del Nord 25 anni dopo

Era un Venerdì Santo anche 25 anni fa, quando nel pomeriggio del 10 aprile 1998 fu firmato l’accordo di pace chiamato a chiudere un capitolo tragico nelle vicende di uno dei conflitti più sanguinosi della storia del XX secolo in Europa. Quello nordirlandese dei Troubles, la cui parola fine venne scritta – sulla carta – nel castello di Stormont, a Belfast: destinato da allora a ospitare la sede dell’assemblea legislativa formata dai rappresentanti delle due comunità non più in guerra aperta tra loro, cattolici repubblicani e unionisti protestanti.
    Il Good Friday Agreement arrivò dopo 30 anni di violenze, stragi, attentati, repressioni e un bilancio ufficiale di 3.500 morti. Al termine di una maratona di negoziati durata oltre sette mesi che coinvolse i leader dell’epoca di Londra, Dublino e Washington, oltre a quelli locali. Le armi vennero così messe a tacere nell’Ulster e si gettarono le basi per un quarto di secolo fondamentalmente di pace: nonostante l’incognita persistente di un’instabilità politica che in questi tempi anche il dopo Brexit ha contribuito a rinfocolare; nonostante divisioni e fibrillazioni simbolicamente richiamate tuttora dai muri sopravvissuti fra i quartieri cattolici e protestanti di Belfast; e nonostante le minacce residue d’irriducibili come i militanti della cosiddetta New Ira. “Ci troviamo ancora in un clima di pace fredda, dove la gente non uccide più o non mette bombe come prima, ma continua a vivere in mondi molto diversi”, sottolinea all’ANSA John Brewer, studioso del post-conflitto e professore alla Queen’s University di Belfast: ateneo che ospiterà le celebrazioni ufficiali solenni dell’anniversario, fissate dal 17 al 19 aprile; dopo l’antipasto della visita di 4 giorni di Joe Biden, presidente americano dalle radici orgogliosamente irlandesi (come prima di lui solo John F.
    Kennedy), atteso su entrambi i lati del confine dell’isola verde fra l’11 e il 14.
    L’accordo venne firmato dall’allora premier britannico Tony Blair, dal suo omologo irlandese Bertie Ahern e da esponenti dei maggiori partiti politici locali come l’Ulster Unionist Party o il repubblicano Sinn Fein, già braccio politico dei guerriglieri dell’Ira; ma non dalla destra unionista del Dup. I due veri artefici furono comunque il cattolico John Hume e il protestante David Trimble, voci moderate che si guadagnarono un Nobel per la Pace raramente altrettanto meritato scommettendo di poter “aprire un futuro per tutto il popolo d’Irlanda costruito sul rispetto della diversità”. Mentre gli Usa fecero da garante attraverso l’emissario scelto da Bill Clinton (in arrivo ora dopo il 17 aprile con Blair e Ahern, oltre che con Hillary): il senatore George Mitchell.
    L’intesa, sottoposta alla fine a due referendum in tutta l’isola in cui i sì prevalsero largamente, prevedeva 4 punti fondamentali: l’eliminazione di check point e controlli doganali al confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda; il totale disarmo dei paramilitari (dall’Ira ai lealisti); un principio d’autodeterminazione rispetto all’appartenenza a Regno Unito o all’Irlanda filtrato da paletti demografici ampi (a tutela di fatto dello status quo); e la creazione d’istituzioni democratiche obbligatoriamente intercomunitarie come l’assemblea di Stormont e un governo locale di unità nazionale. I mesi tra la firma e l’entrata in vigore, il 2 dicembre 1999, furono però vissuti sotto la cappa onnipresente della minaccia d’attentati.
    E la strage più cruenta, a pace siglata, si verificò a Omagh nell’agosto ’98, per mano della gang originaria dissidente della Real Ira.
    Oggi il clima è diverso, malgrado tutto. Ma non privo di ombre, fra scorie del passato e tensioni nuove. “La Brexit ha aggravato i problemi – esemplifica Brewer a quest’ultimo proposito – in quanto il Dup sta utilizzando il Protocollo per l’Irlanda del Nord per evitare di dover governare sotto un first minister dello Sinn Fein. Del resto l’esecutivo per la condivisione del potere è rimasto a lungo sospeso negli ultimi anni”. Gli unionisti di Jeffrey Donaldson avevano chiesto una revisione dell’intesa post-divorzio raggiunta da Londra con Bruxelles come condizione per rientrare nei ranghi d’un governo locale che questa volta dovrebbe prevedere una guida repubblicana (dopo l’inedita affermazione come partito di maggioranza relativa dello Sinn Fein nelle elezioni dell’anno scorso); ma poi hanno respinto la soluzione del Windsor Framework concordata da Rishi Sunak e Ursula von der Leyen per venire incontro alle loro richieste. Un’incognita destinata a proiettarsi ancora sul futuro di una terra laddove la comunità cattolica, dopo aver superato di misura dal punto di vista demografico quella protestante, sente di poter cogliere la chance delle contraddizioni della Brexit per rilanciare e allargare anche su basi interconfessionali alla generazione più giovane, eurofila e secolarizzata dell’Ulster l’eterno dibattito sulla riunificazione con Dublino. Sogno incancellabile d’un emisfero di nordirlandesi, per quanto non certo all’ordine del giorno in termini concreti: almeno nell’immediato.
   


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