WASHINGTON – Alcuni famigliari delle vittime dell’attentato al gay club Pulse di Orlando hanno citato in giudizio Twitter, Facebook e Google per aver fornito con le loro piattaforme “supporto materiale” alla propaganda dello Stato islamico e contribuendo a radicalizzare l’uomo che ha compiuto la strage, Omar Mateen. Lo riferisce Fox News. Finora i tribunali si sono mostrati riluttanti a ritenere responsabili i giganti del web per i contenuti postati, ma se questa causa senza precedenti avesse successo, dicono gli esperti, potrebbe rivoluzionare il mondo dei social media.
Nel procedimento civile avviato nel distretto orientale del Michigan, le famiglie di tre vittime sostengono che le tre piattaforme web “hanno fornito al gruppo terroristico dell’Isis account usati per diffondere la propaganda estremista, raccogliere fondi e attrarre nuove reclute”. “Senza Twitter, Facebook e Google (YouTube), la crescita esplosiva dell’Isis degli ultimi anni nel gruppo terroristico più temuto al mondo non sarebbe stata possibile”, si legge nella citazione.
Al centro della denuncia l’interpretazione di quanto previsto dal Communications Decency Act (CDA) del 1996, che finora è servito a proteggere i social media da eventuali responsabilità legate ai contenuti postati sulle loro piattaforme. Ma alcuni avvocati e accademici sostengono che network come Facebook potrebbero violare la normativa con i loro algoritmi segreti, che consentono di piazzare pubblicità legate alle informazioni degli utenti, condividendo con l’Isis gli introiti pubblicitari e quindi finanziandone l’attività. Facebook, Twitter e Google non hanno risposto per ora alla richiesta di un commento da parte della Fox.
Il 12 giugno scorso Omar Mateen, ex guardia giurata 29enne, entrò nel Pulse e aprì il fuoco all’impazzata sui presenti uccidendo 49 persone e ferendone 53 prima di essere a sua volta ucciso dalle forze di polizia. L’Isis rivendicò l’attacco. Le successive indagini hanno appurato che Mateen non faceva parte di nessun gruppo organizzato, si era votato all’islam radicale “in proprio”, anche tramite la propaganda dello Stato islamico sul web. repubblica.it