È una corsa contro il tempo quella che Donald Trump sta orchestrando dalla sua residenza di Mar-a-Lago per chiudere il capitolo più sanguinoso della recente storia europea. In un susseguirsi frenetico di colloqui incrociati, il leader della Casa Bianca ha impresso nelle ultime ore un’accelerazione decisiva al negoziato tra Mosca e Kiev. Dopo una lunga telefonata con Vladimir Putin e un faccia a faccia in Florida con Volodymyr Zelensky, il tycoon ostenta un ottimismo pragmatico: “Siamo molto vicini. Se le cose vanno bene, potrebbero volerci un paio di settimane”. Ma mentre nei saloni dorati della Florida si disegnano le bozze dell’accordo, su Kiev continuano a cadere le bombe, a ricordare quanto fragile sia il confine tra la pace diplomatica e la guerra reale.

L’offensiva diplomatica americana si muove su un doppio binario. Prima dell’arrivo di Zelensky, Trump ha avuto un colloquio telefonico di oltre un’ora con il capo del Cremlino, definito da entrambi “costruttivo” e “molto produttivo”. Il punto di caduta concordato tra Washington e Mosca sembra essere il rifiuto di una tregua temporanea, vista dal Cremlino come un mero pretesto per il riarmo ucraino e da Trump come un ostacolo alla soluzione definitiva. “Putin è molto serio nel volere la pace”, ha assicurato il presidente americano, svelando l’istituzione di due gruppi di lavoro congiunti Usa-Russia, operativi da gennaio, dedicati rispettivamente alla sicurezza e alle questioni economiche.
Tuttavia, l’incontro con Zelensky ha messo a nudo le difficoltà che ancora permangono, in particolare sul destino dei territori occupati. Il presidente ucraino, definito “coraggioso” dal padrone di casa, ha mostrato aperture inedite, non escludendo l’ipotesi di un referendum per ratificare eventuali concessioni territoriali – “una terra non appartiene a una sola persona”, ha detto – e dicendosi disponibile a indire elezioni, ferme dal 2019. Ma il nodo del Donbass resta il vero ostacolo. “Non direi che c’è accordo”, ha ammesso Zelensky, mentre Mosca continua a chiedere a Kiev una “decisione politica coraggiosa”, eufemismo diplomatico per la cessione definitiva delle regioni orientali. Anche Trump non ha nascosto la complessità del dossier: “È certamente uno dei problemi più grossi, ma ci stiamo muovendo nella giusta direzione”.
Al tavolo delle trattative, seppur virtualmente, si è seduta anche l’Europa. In una videoconferenza che ha visto la partecipazione della premier italiana Giorgia Meloni e della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, si è discusso delle garanzie di sicurezza “incrollabili” che l’Occidente dovrà fornire a Kiev a fronte di un accordo di pace. Trump ha assicurato che l’Europa avrà un ruolo centrale: “Ci sarà un’intesa sulla sicurezza. Sarà un accordo solido e le nazioni europee sono coinvolte in questo”. Meloni, dal canto suo, ha ribadito la necessità di mantenere la coesione tra alleati, chiedendo alla Russia segnali concreti di responsabilità.
Nonostante i “progressi significativi” vantati da Trump, che non esclude un viaggio a Kiev per presentare il piano di pace al parlamento ucraino, la realtà sul campo racconta un’altra storia. Proprio mentre si discuteva in Florida, la Russia ha sferrato un massiccio attacco missilistico sulla capitale ucraina, causando due morti e oltre trenta feriti. Un raid che ha costretto la Polonia a far decollare i propri caccia e che Zelensky ha citato come prova che “Putin non vuole porre fine alla guerra”.
La strategia di Trump è chiara: “O finirà o andrà avanti per molto tempo”. Non ci sono vie di mezzo. Il piano in 20 punti elaborato dall’asse Washington-Kiev è sul tavolo, ma l’esito di questo “rush finale” dipenderà dalla capacità di sciogliere il nodo gordiano del Donbass senza che la pace appaia come una resa incondizionata dell’Ucraina. “Del doman non v’è certezza”, direbbe qualcuno, ma a Mar-a-Lago la scommessa è che quel domani arrivi entro due settimane.












