Una catastrofe sanitaria, prima di tutto. Quindi una catastrofe sociale. Poi anche economica e politica. L’epidemia del nuovo coronavirus ha avuto sulla Cina, e di riflesso sul resto del mondo, lo stesso effetto dell’esplosione di una bomba atomica. In un colpo solo lo Stato più popoloso del mondo, il Paese che stava lavorando duro per superare gli Stati Uniti (e per certi versi ci stava già riuscendo), la nazione che più è cresciuta economicamente negli ultimi decenni, si ritrova nudo e inerme di fronte a un nemico enorme e all’apparenza invincibile.
Eppure, anche in un simile scenario apocalittico, c’è chi è pronto a fare affari. È il grande business della pandemia, come lo ha soprannominato Il Fatto Quotidiano, e riguarda l’incessante attività di ricerca e sviluppo messa in moto dai vari governi del mondo nel tentativo di trovare un vaccino capace di arginare l’avanzata del 2019-n-CoV.
Quell’allarme inascoltato
Il contagio, la paura di contrarre il virus, il terrore di morire: è questa la benzina che ha spinto i Paesi del mondo a riflettere sull’esigenza di investire massicciamente in ricerca, profilassi e risposte adeguate contro le pandemie. Oggi è scoppiata l’emergenza coronavirus, domani chissà.
Nel frattempo è partita la corsa alla creazione di possibili vaccini; ingenti risorse saranno investite per creare un possibile rimedio alla polmonite cinese. L’imperativo sarà quello di evitare che i citati investimenti e il coinvolgimento delle società farmaceutiche si trasformino in veri e propri sperperi.
In ogni caso, qualche mese fa, l’Organizzazione mondiale della sanità e la Banca Mondiale hanno presentato un rapporto sulla preparazione globale contro le pandemie. Il risultato ha lasciato perplessi: prima o poi, sostenevano gli esperti, una pandemia sarebbe comparsa dal nulla mettendo in evidenza l’impreparazione dei governi. Quelle previsioni sembrano adesso avverarsi: “La concreta minaccia di una pandemia in rapida diffusione, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccida da 50 a 80 milioni di persone e cancelli quasi il 5% dell’economia globale”.
Il costo di una catastrofe sanitaria
Nella storia ci sono state numerose pandemie che hanno falcidiato centinaia di migliaia di persone. La “pandemia spagnola” del 1918-1919 uccise 50 milioni di individui e ne colpì 500 milioni; nel 1957 l’influenza “Asiatica” provocò 1,1 milioni di morti, la “Hong Kong del 1968 arrivò 1,1 milioni. Nel 2002-2003 la Sars contagiò 8.098 persone uccidendone 774; l’influenza suina A H1N1 causò nel 2010 tra le 152 e le 575mila vittime. La Mers del 2012 fu causa di morte per 858 persone. Ogni anno l’influenza stagione colpisce nel mondo una persona su otto. I morti? Dai 290mila ai 650mila.
Accanto ai costi sanitari e sociali ci sono quelli economici. Per arginare le epidemie citate i governi devono stanziare miliardi e miliardi di dollari: la Sars è costata 40 miliardi, Ebola addirittura 53, l’influenza suina tra i 45 e i 55. Oggi, una nuova pandemia come quella Spagnola, costerebbe all’economia globale la bellezza di 3mila miliardi di dollari: il 2,2% del Pil mondiale. In mezzo alla psicosi collettiva ecco dunque spuntare il grande business delle case farmaceutiche, contattate da governi impauriti da possibili massacri. Gli Stati, nei casi sopra citati, firmarono contratti miliardari per assicurarsi scorte di vaccini, molte delle quali rimaste poi inutilizzate. Sarebbe auspicabile non dover più ripetere gli stessi errori del passato. Il Giornale.it