Amenità di guerra

C’è una nuova figura che si staglia all’orizzonte nel Belpaese alle prese con la guerra: i cacciatori di «putiniani». Ogni giorno chi in passato ha dialogato con Putin viene sottoposto ad un esame approfondito in politica o sui giornali per verificare se le sue ultime uscite sono abbastanza dure contro lo Zar. Si guarda al passato per processare il presente come se Putin fosse stato sempre il Male assoluto. Oppure si fa l’esegesi delle dichiarazioni di Salvini o dell’ultimo grillino per verificare se l’accusa di collaborazionismo con il nemico sta in piedi o no. Un atteggiamento che stride con la drammaticità di un momento in cui tutti dovrebbero esaltare l’unità di fronte alla guerra rispetto alle posizioni politiche di parte. Tanto più che mai come ora sull’Ucraina, al di là di qualche polemica di cortile, il Paese è unito, visto che il governo ha dalla sua non solo la maggioranza ma anche l’opposizione.

Si chiamano amenità. Come amenità sono le congetture che dividono il Paese tra guerrafondai e pacifisti sull’approccio al conflitto. Dicono i secondi: bisognerebbe negoziare, privilegiare la diplomazia, ricercare il compromesso magari con un maggior coinvolgimento dell’Onu. Più che ragionamenti, sono riflessi condizionati, rituali che vanno in scena ad ogni guerra e che possono contare su attori di destra, di sinistra o di centro. Il problema è che sono assunti teorici che spesso non hanno nulla a che vedere con la realtà. Si tira in ballo la strada della mediazione come se qualcuno non la volesse, dimenticando un dato: i negoziati tra le due parti vanno avanti dal 28 febbraio, cioè sono iniziati quattro giorni dopo lo scoppio del conflitto, e per ora non hanno sortito nulla. Come pure le telefonate dei leader europei al Cremlino, l’intervento del leader turco, di quello cinese e il viaggio del premier israeliano a Mosca. Non parliamo poi dell’Onu: in questa crisi ha dimostrato – come se ci fosse bisogno di ulteriori prove – di essere un ente inutile, in Italia ne abbiamo una collezione. Addirittura non si sa ancora neppure cosa voglia Putin, visto che Zelensky ha rinunciato alla Nato e la Crimea e il Donbass sono già in mano allo Zar. Per cui la contrapposizione tra guerrafondai e pacifisti è sul nulla, visto che per ora a Mosca il negoziato è solo una tattica di guerra. Appunto, un’amenità.

Ma l’inganno più ameno, per scomodare il Leopardi delle Ricordanze, è il dilemma sulla fornitura di armi all’Ucraina. Ora, si può questionare quanto si vuole, ma delle due l’una: o la sostieni fornendo a Kiev anche gli strumenti per difendersi; o le consigli di arrendersi. Dire che l’Ucraina è vittima di un’aggressione criminale, che va difesa la democrazia senza fornirle le risorse che chiede per resistere, è un deprecabile esercizio di ipocrisia. Tanto più che dopo un mese e non so quante vittime, qualcuno dovrebbe avere la faccia di bronzo di suggerire la resa non a Zelensky, ma alla nazione intera. Perché, per chi non lo avesse ancora compreso, questa è una guerra di popolo, altrimenti Kiev, Odessa, la stessa Mariupol già sarebbero capitolate. Quindi pure la diatriba sulle armi è un’amenità. Amenità, con tutto il rispetto, che servono a riempirsi la bocca nei talk show ma che non hanno nulla a che vedere con la tragedia di una guerra.


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