Un’altra leggenda del nuoto, l’olimpionico Adam Peaty, alza bandiera bianca. Stress, burnout, depressione o problema mentale che sia, il campione britannico ha deciso di non poter andare avanti con la vita di sempre, tra allenamenti estenuanti e sempre nuove sfide da affrontare in gara, senza affrontarlo. Ha così annunciato a tutti che si fermerà per un po’, rinunciando ai campionati nazionali e quindi ai Mondiali, principale appuntamento del 2023, per provare a tornare in sesto in vista delle Olimpiadi Parigi. I fantasmi della mente, le ombre della depressione, il rigetto della quotidiana pressione interna ed esterna a superare se stessi sono purtroppo un tratto comune a tanti fuoriclasse dello sport, come conferma anche la psicologa Monica Vaillant, plurimedagliata con il Setterosa: “A noi sembrano, e loro si sentono, dei supereroi, ma a quei livelli, i più alti, la crisi, prima o poi, arriva, è quasi inevitabile”.
“Bisogna considerare che un campione vive continuamente momenti di grande tensione, per l’impegno che deve mettere per arrivare e rimanere al top, portandolo a investire tutto su quel fronte – spiega Vaillant -, con l’ulteriore aggravio di vivere tale situazione da un’età molto giovane, in un momento di crescita, di sviluppo del senso del sè. Le basi su cui si costruisce, quindi, sono spesso precarie. Ma la crisi può arrivare anche dopo aver lasciato la ribalta. Tutto quello che si è per forza tralasciato o vissuto senza la dovuta attenzione, dal prepararsi per una attività lavorativa alla vita affettiva, possono avere un impatto pesante”. Quando capita che qualche ‘supereroe’ dello sport ammette i suoi problemi, il caso fa subito scalpore, proprio per l’immagine che si ha di lei o di lui, ma secondo la psicologa sono numerosissime anche le situazioni taciute o nascoste.
Tra i nuotatori, prima di Peaty hanno ammesso, e affrontato, i loro problemi anche il re delle piscine Michael Phelps, recordman di ori olimpici, il suo omologo australiano, Ian Thorpe, e altro grande del nuoto come Ryan Lochte. Battaglie con la propria mente come quelle affrontate anche da chi è abituato a solitudine e fatica in sella a una bici, come Mark Cavendish, Marcel Kittel, Tom Dumoulin e Gianni Bugno, oppure a estenuanti duelli su un campo da tennis, come la giapponese Naomi Osaka e l’australiana Ashleigh Barty, ma anche a campioni con una squadra alle spalle, come Andres Iniesta o Josip Ilicic, e ancor prima Paul Gascoigne, lo sportivo alcolizzato forse più famoso di sempre. In alcuni casi è tragico l’epilogo di queste storie, come per Kelly Catlin, campionessa di ciclismo, finita dopo due cadute in una spirale che l’ha portata al suicidio, stessa fine del portiere della nazionale tedesca Robert Enke.
L’assistenza psicologica, secondo Vaillant, dovrebbe essere una preoccupazione primaria per ogni atleta di alto livello, di solito seguito invece ‘solo’ da allenatori, preparatori atletici e medici. Un sostegno preventivo che potrebbe evitare, o alleviare, tante crisi. “Se negli sport di squadra la figura dello psicologo è ormai quasi la normalità, per gestire le dinamiche interne ma anche per un eventuale aiuto ai singoli – sottolinea -, per quelli individuali tale sostegno è adottato con molta meno frequenza, o magari solo quando si manifestano dei problemi”. (ANSA).
—
Fonte originale: Leggi ora la fonte