Gli esuli istriani scrivono alla Meloni: “Noi da sempre ignorati, ci ascolti”

Nessuna sindrome da ritorno al passato né appelli alla “resistenza”. È questione di buonsenso. Se sai come funziona quando una dittatura prende il potere, non puoi che guardare di buon occhio le libere elezioni. Oggi la comunità degli esuli giuliano-dalmati, a differenza di certe associazioni combattentistiche (leggasi Anpi), non si straccia le vesti per la vittoria del centrodestra, anzi.

“Da italiani, sia per scelta sia per nascita, non possiamo che essere contenti per l’esercizio di democrazia registrato con le elezioni dello scorso 25 settembre, finalmente saremo guidati da un governo espressione del voto popolare”, scrive Antonio Ballarin, presidente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, in una lettera aperta indirizzata alla futura premier Giorgia Meloni.

Quando quelli che Montanelli chiamava “due volte italiani” rifiutarono il “paradiso comunista”, al di qua dell’Adriatico non c’erano né gloria né onori, ma solo pregiudizi e diffidenza. Qualcuno li considerava una specie di reietti. Tutto hanno fatto fuorché vestire i panni delle vittime. Si sono rimboccati le maniche e sono andati avanti. Sono rimaste però delle questioni aperte da troppo tempo.

No, non c’è alcuna rivendicazione territoriale né pretesa irredentista. È sempre meglio specificarlo, visto che in Croazia qualcuno è addirittura convinto che il nuovo governo (neppure nato, ma già accusato delle peggiori meschinità) voglia persino riprendersi l’Istria e Fiume. I nodi da sciogliere di cui parla Ballarin sono altri.

È arrivato il momento di affrontare seriamente la questione del risarcimento dei beni sottratti agli esuli. Il governo italiano di allora, stiamo parlando degli anni Cinquanta, li usò per pagare i debiti di guerra con la Jugoslavia. L’impegno assunto con i legittimi proprietari era chiaro: sarebbero stati “equamente indennizzati”. Quella promessa però non è mai stata pienamente onorata. Secondo i calcoli delle associazioni, mancano ancora all’appello circa 4,5 miliardi di euro. “Una cifra che sembra enorme, ma se confrontata con l’attuale debito pubblico rappresenta l’1,6 per mille. Non è solo questione di vile danaro, ma soprattutto un’espressione di civiltà attesa da lunghi decenni”, mette in chiaro Ballarin. E non solo.

A distanza di più di mezzo secolo c’è ancora chi riduce, giustifica, se non addirittura nega le foibe e le sofferenze patite dai nostri connazionali. Dichiarazioni che troppo spesso non suscitano uno “sdegno mainstream” e che difficilmente vengono sanzionate. È per questo che Ballarin auspica una modifica della legge che punisce la propaganda, l’istigazione e l’incitamento al razzismo “con l’inserimento di una menzione specifica al negazionismo e giustificazionismo per i crimini commessi in Istria, Fiume e Dalmazia”. Rimanendo nel campo delle norme, la nuova maggioranza potrebbe mettere mano anche alla disciplina per il conferimento delle onorificenze al merito della Repubblica. Senza un simile intervento, infatti, non è possibile revocare il cavalierato assegnato al “Maresciallo Tito”.

L’annullamento della benemerenza, allo stato dell’arte, si può fare solo se chi l’ha ricevuta è ancora in vita. “Quel cavalierato – ricorda Ballarin – è causa di dolore e sofferenza”. Quattro anni fa, proprio Fratelli d’Italia, con una proposta di legge a prima firma del senatore Luca Ciriani, puntava nella stessa direzione: “Se la politica deve essere capace di una memoria non di parte (…) è doveroso riconoscere nella maniera corretta il ruolo che figure come quella di Tito hanno avuto per la nostra comunità nazionale”.

È da anni che l’associazionismo dell’esodo formula le stesse identiche richieste. Con l’arrivo dell’ultima (l’ennesima) crisi di governo anche la FederEsuli le aveva ribadite in un comunicato. I tempi adesso dovrebbero essere maturi. E un governo finalmente coeso con una maggioranza stabile potrebbe riuscire a fare anche questo.


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