L’operazione «Conte for Parliament» nel collegio Roma1 lasciato libero dal sindaco Gualtieri, è durata quanto un gatto in autostrada.
È bastata la minaccia congiunta di una candidatura alternativa da parte di Carlo Calenda (pronto a scendere in campo personalmente, in un collegio in cui ha preso più voti del Pd) e di Matteo Renzi per far naufragare una ipotesi cui il capo politico dei Cinque Stelle e il gruppo dirigente dem (da Enrico Letta a Dario Franceschini a Nicola Zingaretti) lavoravano assiduamente da settimane.
«Non esiste, proprio non esiste cedere un collegio ai Cinque Stelle che hanno devastato Roma, sono pronto a candidarmi per evitarlo», tuonava Calenda. Mentre Renzi avvertiva: «Se il Pd candida Conte, troveremo una candidatura riformista contro il premier del sovranismo e del giustizialismo». E Benedetto Della Vedova negava il sostegno di Più Europa all’ex premier e ammoniva il Pd: «Sarebbe la conferma che è totalmente disinteressato a una interlocuzione con l’area riformista». Una levata di scudi simultanea che ha creato non poche preoccupazioni a sinistra, anche in vista della partita per il Colle: certo, l’area riformista è divisa tra diverse anime e leader, ma se si compatta «contro» il blocco Pd-M5s è in grado di farne saltare i giochi. E i suoi numeri, in Parlamento, possono essere decisivi: basti pensare che, da soli, Italia viva e Coraggio Italia, la formazione del ligure Giovanni Toti, che dialogano assiduamente su una possibile «federazione», mettono insieme un pacchetto di mischia di quasi 80 grandi elettori «uniti dalla sintonia con la guida del governo di Draghi», dice il renziano Ettore Rosato. Che preferirebbero, è il sottinteso, non veder spostato da Palazzo Chigi al Quirinale. Un pacchetto cui potrebbero aggiungersi, su questo obiettivo, altri spezzoni centristi (vedi l’attivismo di Clemente Mastella). Il voto a Roma del 16 gennaio, insomma, rischiava di diventare una pericolosissima prova generale di quel che pochi giorni dopo potrebbe accadere in Parlamento.
La retromarcia è stata immediata: a sera Giuseppe Conte annuncia di aver «declinato» l’offerta. Ma in realtà già ieri mattina, al Nazareno, la tensione era altissima mentre dall’entourage dell’ex premier facevano trapelare il ripensamento, lasciando il Pd con il cerino in mano, a cercare prima di convincere Conte a non tirarsi indietro, dopo aver sollecitato la candidatura. E poi a tentare di capire come rimediare alla figuraccia, fronteggiando la polemica interna al Pd (il ministro Lorenzo Guerini è stato uno dei primi a sollecitare un ripensamento di Letta) e cercare l’accordo mettersi d’accordo su un altro nome: il Pd romano vuole Enrico Gasbarra con cui, si dice, ci sarebbe già un intesa per il cambio della guardia alla Regione con Zingaretti a fine legislatura. Il segretario vorrebbe «una donna», come la ex Cisl Annamaria Furlan, per trovare un’intesa con i centristi. «Prima di combinare un altro macello, non sarebbe meglio sentirci?» è il messaggio irridente di Calenda a Letta.
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