«La giustizia dai tempi di Tortora non è cambiata, o se è cambiata, è cambiata in peggio». Tullio Padovani è docente di Diritto penale da 40 anni, avvocato e accademico dei Lincei, ma il prestigio accademico e forense, nel suo caso, si traduce in chiarezza adamantina, quando si tratta di analizzare lo stato del sistema giudiziario e l’effetto dei referendum del 12 giugno.
Professore, da presidente onorario del Partito radicale lei ha partecipato all’elaborazione dei quesiti?
«Solo a quello sul fine vita, quello dell’associazione Coscioni, e l’ho difeso alla Consulta, vanamente. Non ho preso parte invece alla stesura dei referendum sulla giustizia».
Ha detto tuttavia che li avrebbe firmati 500mila volte. Un’occasione importante?
«Certo, io sono un vecchio radicale, e quei quesiti rispecchiamo la mia prospettiva di giustizia. Non realizzano la riforma, no, ma sono tutti indirizzati verso ciò che deve essere fatto affinché la giustizia acquisti carattere di modernità e civiltà».
Oggi non è moderna e civile?
«Neanche lontanamente. Del resto, se due italiani su tre non hanno fiducia nella giustizia, qualcosa vorrà pur dire. Si è creato un clima di tale disaffezione da provocare quasi una crisi di rigetto. Ed è una situazione drammatica. Guardi, gli antropologi rilevano che in ogni aggregato umano la prima indefettibile funzione è la risoluzione dei conflitti. Poi viene tutto il resto, l’amministrazione può mancare, la legislazione si può affidare alla consuetudine, ma la giurisdizione no, o non c’è comunità».
Non regge la convivenza civile?
«Non regge la comunità. Nel nostro caso abbiamo una iper giurisdizione. Sabino Cassese nel suo ultimo lavoro mostra come sia diventata straripante. E non sono tanto i giudici quanto i Pm, il potere d’accusa. Si è creato ulteriore squilibrio. Le indagini sono diventate il cuore del processo. La decisione cruciale è quella preliminare. È lì che l’opinione pubblica erige l’imputato a colpevole, poi l’esito si vedrà, si disperderà confinato in qualche notizia breve».
Lei è ancor più deciso di quando ha firmato per i referendum.
«Sono più sdegnato e determinato, sì. Intendiamoci, il 12 giugno non è una panacea. Solo un ingenuo può pensare che sia la soluzione, ma comincia a esserlo, è un passo verso la soluzione, segnala alcuni punti. Punti dolenti».
Per esempio?
«Il problema delle correnti, e quindi del Csm, la divisione delle carriere, il tema del potere sulla libertà personale, la valutazione sulla professionalità dei magistrati. Nodi particolarmente significativi, momenti essenziali. Anche la legge Severino, che anticipa effetti così dirompenti togliendo di mezzo una persona in modo drastico, mi pare manifestamente contraria alla presunzione di non colpevolezza».
Eppure il quorum è a rischio.
«Problema ricorrente, salvo coi referendum che avevano forza evocativa così pregnante da assicurarlo; non solo divorzio e aborto ma anche responsabilità civile dei magistrati, vinto con percentuale travolgente, anche se poi sopravvenne una legge che ne negava gli effetti. Il fatto è questo: il referendum è una sorta di contropotere rispetto al legislatore e l’autorità lo vede con ostilità e se può lo frena. Magari lo fa coi guanti: un giorno di voto invece di due, magari un giorno in cui rinunciare a una gita è difficile. E silenzio tombale».
Ma si vota senza logiche partitiche. Senza badare a chi lo propone.
«Cosa c’entra chi lo propone? Sono pretesti. Se io non voto è perché non mi importa un fico secco della giustizia. Se non votassi perché l’ha proposto la Lega (peraltro formalmente i richiedenti sono i Consigli regionali) sarebbe come se non prendessi un treno per antipatia delle officine che l’hanno costruito. Il punto è che mi porti dove devo andare. Dobbiamo chiederci in che Paese siamo».
Se comunque ci fossero milioni di sì?
«Se votasse il 30%, sarebbe una dozzina di milioni di elettori. Coi sì al 90% sono 10 milioni di sì. Avrebbero un peso. Certo, qualcuno dovrebbe farlo valere: Ci sono 10 milioni di italiani per cui le cose non possono andare così».
È vero che la riforma Cartabia rende inutili alcuni quesiti?
«Le riforme sono soggette a variabili continue. Le vedo da 52 anni, salutate come salvifiche, seguite poi da altre riforme. Due quesiti forse ballano, ma tutto è sul piano dell’eventualità. Bisogna vedere se va in porto».
Intanto votiamo, dice lei. Sono passati 34 anni dalla morte di Enzo Tortora. La nostra giustizia è ancora ingiusta?
«Non ho un misuratore ma con assoluta serenità posso dire che è un sistema che non è cambiato, e se è cambiato è cambiato in peggio».
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