Melitopol. La strada è come ogni mattina un ingorgo di carri armati, blindati e pezzi d’artiglieria. Colonne d’acciaio che dal confine della Crimea si snodano verso i fronti di Mariupol sorvolate da elicotteri in volo radente. Prigionieri di quella marea senza fine impieghiamo più di cinque ore per superare i 130 chilometri che separano l’ultimo posto di blocco della Crimea da Melitopol, prima grande città dell’Ucraina caduta nelle mani dei russi dopo il 24 febbraio. Ma anche qui, come in tanti altri centri dell’Ucraina, la presa del centro cittadino non è bastata a conquistare l’anima e la mente di gran parte della popolazione. Non a caso qui tiene banco la vicenda di Ivan Fedorov, il sindaco scomparso dopo essersi rifiutato di togliere la bandiera dal suo municipio. Una vicenda che ieri ha portato le autorità militari russe a vietare le bandiere gialloblù anche a Kherson. In questo clima l’attività della decina di giornalisti a cui è stato concesso di arrivare a Melitopol è tenuta sotto stretto controllo. I militari ci seguono passo dopo passo, mentre altri personaggi filmano ogni mossa e ogni intervista. Sicuramente, come spiegano, lo fanno «per la nostra sicurezza». Ma anche, molto probabilmente, per evitare l’imbarazzo di colloqui «fuori controllo» con la popolazione locale. Comunque sia la vicenda di Ivan Fedorov non può essere ignorata. Nella notte, peraltro, si è saputo che è tornato libero dopo esser stato scambiato con nove prigionieri russi. Così, alle 11 di mattina, eccoci sotto le vetrate a specchio che fino a una settimana fa ospitavano il suo ufficio. Ma ad attendere i giornalisti nella sala principale del palazzo non c’è Fedorov, bensì Elena Danilehenko la funzionaria filorussa nominata primo cittadino subito dopo la sua scomparsa. Ovviamente la prima domanda per la signora in camicetta rosa e gonna di taglio sovietico è cosa sappia del sindaco di cui ha preso il posto. La signora Danilehenko non si fa sorprendere, ma si arrampica sugli specchi. «Perché non avrei dovuto prendere il suo posto – s’indigna – in fondo aveva spiegato di dimettersi per ragioni ideologiche». Le facciamo notare che dimettersi è diverso dallo scomparire. E anche dal venir rapiti. «Io quando ho accettato la carica sapevo solo che si era dimesso – si corregge la signora Danilehenko -. Le notizie secondo cui aveva avuto dei problemi con le autorità del Donbass ed era stato arrestato sono saltate fuori solo più tardi. Ora però sappiamo la verità, finanziava i neonazisti di Pravyi sektor per questo le autorità del Donbass lo hanno fatto arrestare. Quanto alla sua liberazione e allo scambio con nove prigionieri russi non ne so niente, sono notizie dei vostri media, non posso certo crederci». Ma le certezze dell’attuale sindaca non sembrano condivise da tutti i suoi concittadini. Per capirlo è sufficiente scendere nella piazza sottostante. Qui una domanda basta ad infiammare gli animi. «Quelli lassù sono degli impostori», urla Svetlana indicando le vetrate del municipio mentre il marito cerca disperatamente di mettere un argine al suo coraggio. «Il nostro vero sindaco è Ivan Fedorov, sappiamo che è stato liberato e non vediamo l’ora di riaverlo qui in città assieme a tutti quelli costretti a fuggire dopo il 24 febbraio». Le urla della signora non tardano a innescare un piccola guerra verbale. «E allora io che sono russo di padre e madre da almeno tre generazioni che dovrei fare? Andarmene? Lasciare ai neonazisti, la mia casa e il paese dove sono sepolti i miei genitori e i miei nonni?», s’infuria Vladimir, un ingegnere di 55 anni che ha ascoltato il discorso di Svetlana. «Questi – urla – sono ragionamenti da separatisti, sono le stesse idee che ci hanno portato alla rovina dopo la fine dell’Unione Sovietica». Vera benzina sul fuoco per Svetlana che, incurante degli agenti anti sommossa della Rosvguardia, la Guardia Nazionale addestrata a mantenere l’ordine nelle zone occupate, risponde punto su punto. «Melitopol, ricordatevelo bene, è solo Ucraina. E fino al 24 febbraio era anche un paese libero. Prima che ci invadeste qui vivevamo tutti in pace».
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