Omaggio a De Mita dal “colonnello” Mattarella. L’eterno potere della sinistra democristiana

Il partito, di cui fu leader negli anni Ottanta, non gli è sopravvissuto ma quel pezzo di classe dirigente a lui legata, la sinistra Dc della Base, è ancora oggi il sale di parte dello schieramento politico. Contraddizioni e intuizioni di Ciriaco De Mita, potente e ingombrante nella Dc che lentamente si spegneva. Un uomo che respirava la modernità, forse l’ultimo a tentare con la stagione degli «esterni» il rinnovamento impossibile di un mondo che si andava dissolvendo, sotto i colpi di una cultura sempre più spregiudicata e lontana dalla tradizione e in vista dell’imminente crollo del Muro di Berlino.

Lui abita un partito vecchio ma non si arrende: ha studiato alla Cattolica, fucina della nomenklatura del Paese, ha respirato il personalismo di Maritain, poi interpretato da un’ala del mondo cattolico come apertura alle ideologie del ventesimo secolo, ha iniziato la sua carriera all’ufficio legale dell’Eni, con Enrico Mattei, lo stesso mitico presidente del cane a sei zampe che finanzia la Base di Giovanni Marcora.

Gli anni Ottanta sono il decennio in cui questo crogiolo diventa una linea di potere e un tentativo di pilotare la modernizzazione dell’Italia. Sette anni alla segreteria della Dc, dall’82 all’89, l’alleanza che in realtà è una rivalità accesissima, antropologica, con Bettino Craxi, la rottura del cosiddetto patto della staffetta con i socialisti, le elezioni anticipate nell’87, l’amicizia, almeno per un certo periodo, di Eugenio Scalfari, timoniere della corazzata Repubblica e bandiera dei progressisti, la conquista di Palazzo Chigi. Prima con la breve ascesa di Giovanni Goria, poi fra l’88 e l’89 De Mita è in simultanea capo del partito e presidente del consiglio.

Tanto. Troppo. È così nell’89 il Caf, insomma Craxi, Andreotti e Forlani riconquistano le chiavi del Palazzo; i due big dello scudo crociato normalizzano il partito e tutti e tre offrono poi il collo al boia di Mani pulite che taglierà le teste della Prima repubblica.

Sette anni al vertice, dunque. Nell’85 Il Mondo colloca De Mita sul podio fra gli uomini più potenti d’Italia, e in quel periodo Gianni Agnelli spiega in tv, a Mixer, che De Mita gli pare un tipico intellettuale della Magna Grecia. Una definizione che lo farà imbestialire e gli rimarrà appiccicata tutta la vita.

Nell’82 è lui a inventare, pescandolo nel retroterra degli «esterni», Romano Prodi che catapulta alla guida dell’Iri, e con lui chiama un manager del calibro di Fabiano Fabiani, Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, Roberto Ruffilli, il costituzionalista che verrà assassinato dalle Br.

Contemporaneamente, il clan degli «avellinesi», insomma più o meno i suoi compaesani e presunti amici, entra in massa nella stanza dei bottoni: Antonio Maccanico, l’onnipotente dominus della Rai Biagio Agnes, Gerardo Bianco, Nicola Mancino.

Poi nella geografia demitiana ci sono i colonnelli, gli evergreen ancora strategici nella Seconda repubblica: Bruno Tabacci, presidente della Regione Lombardia in quello scorcio e protagonista di infinite operazioni politiche fino ai giorni nostri e poi, come reazione al sacco di Palermo e alla stagione cupa di Vito Ciancimino, Sergio Mattarella, nominato nell’84 commissario di una Dc palermitana azzerata proprio da De Mita.

Insomma, se la Dc finisce, ì democristiani forgiati nell’ officina di Nusco passano miracolosamente indenni per le forche caudine di Tangentopoli, come ripete nei suoi libri Paolo Cirino Pomicino.

Quando la scelta si fa manichea, o di qua con Berlusconi o di là con la sinistra, saltano tutti semplificando, dall’altra parte. Tutti, con l’eccezione forse di Clemente Mastella, il portavoce dell’ormai ex premier che sceglie il lato destro dello schieramento e rompe con il maestro che è entrato nel Partito popolare di Mino Martinazzoli, altro intellettuale ma proveniente dal profondo Nord bresciano.

Astri vecchi e nuovi. Dario Franceschini a Ferrara ed Enrico Letta a Pisa, mentre Romano Prodi diventa il presidente della Commissione europea e poi il premier dell’Ulivo, nell’eterna competizione con il Cavaliere.

La partecipazione del «colonnello» Mattarella alle esequie più che un omaggio istituzionale è il riconoscimento di una figliolanza che prosegue trent’anni dopo la fine della Dc. L’eterno ritorno della sinistra democristiana.


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