Renzi gli nega l’onore delle armi. “Sono io che ho deciso di cacciarlo”

Matteo RenziMARINO si è ammazzato da solo, dice Renzi ai suoi. E nelle ore dell’agonia, non gli risponde al telefono: sa qual è la richiesta.Vuole l’onore delle armi dal premier, insiste perché spenda una parola per lui: «Poi mi dimetto». Figuriamoci: Matteo non ci pensa proprio. Quarantotto ore fa, ad Orfini ha consegnato la sentenza irrevocabile: «Liberami da quest’uomo. O con le buone, o con le cattive». Certo, indietro non torna: anzi, mette centinaia di chilometri di distanza da una persona che non ha mai amato.
Decide di andare a Bologna nelle ore in cui si scrive la parola finale sulla vicenda. E vuole che risulti agli occhi di tutti che è il Pd a dare il benservito al sindaco: per questo gli nega il palcoscenico che il medico brama. «Così – ragiona – risulta chiaro che non è l’opinione pubblica che lo manda via, ma io assieme al mio partito».

RACCONTANO che l’addio al Campidoglio di Ignazio gli abbia fatto venire l’orticaria. Magari l’aveva messo in conto, ma quel j’accuse contro chi «non lo difende» gli arriva come uno schiaffo. A riassumere indignazioni diffusa è Esposito: «Ma vi rendete conto che dice che chi chiede le dimissioni è un mafioso? È da pazzia, andrebbe querelato».
Matteo prende nota: ci sarà tempo per fare i conti. Tenendo a mente che – come sospettano i renziani – Marino potrebbe fare una sua lista e presentarsi per far perdere il Pd, quando si voterà. Vero? Chissà: di sicuro, c’è che l’altra notte è caduto anche l’ultimo scudo, la paura di una vittoria dei grillini alle comunali. Per qualche mese, Renzi ha subìto il sindaco: temeva che dopo il patatrac, i romani l’avrebbero fatta pagare al Pd.
«Se avesse continuato Marino, avrebbe peggiorato la situazione». E non è detto – sussurra qualcuno – che non sia salutare stare fermi un giro, lasciando Roma in mani altrui. C’è stato un attimo, quando è scoppiata la grana di Mafia capitale che Renzi avrebbe voluto andare subito al voto: ancora in primavera si interrogava dubbioso sul da farsi, consapevole dell’impopolarità del sindaco. Poi si è chetato, per salvare la pace con Orfini. Se c’è qualcuno che si è speso per Marino e ne esce male è il presidente del partito, ammettono in molti. Vero è che le dimissioni sono accolte da tutti con un senso di liberazione: «È una brava persona ma se ne deve andare», dichiarava di buon mattino Mineo. Epperò: la sinistra non ci sta ad incassare senza fiatare. E dunque più d’uno tra i bersaniani fa notare come il premier abbia sbagliato a non metterci la faccia: «Invece di commentare dall’esterno doveva gestire la situazione». Sul terreno restano morti e feriti. Dopo la vicenda degli scontrini falsi, cala infatti il sipario anche sull’immagine di Marino come uomo pulito: diventa così indifendibile.

«MAGARI non c’è il danno erariale perché ha restituito i soldi, ma c’è la possibilità di un processo per peculato e falso ideologico – sottolineano a Palazzo Chigi – è chiaro che non possiamo tenerlo in queste condizioni». Come gli indiani di Agatha Christie, in mattinata uno dopo l’altro si dimettono gli esponenti Pd di peso nella giunta: il vicesindaco Causi, gli assessori Esposito, Di Liegro, Rossi Doria. «Se non ti dimetti – gli dice Causi nel pomeriggio – se ne andranno altri sei. Poi, lo faranno i consiglieri». Già: Renzi vuol evitare la mozione di sfiducia, ecco perché usa questa arma. E ragiona sui passi successivi: incassate le dimissioni, bisogna nominare il commissario che governi la capitale nella fase del Giubileo, faccia uscire la città dalle secche e la porti alle urne. Gabrielli? Per farlo dovrebbe mollare l’incarico di commissario straordinario: più facile si punti su altri. Circolano i nomi del prefetto Rizzi, del vice capo della polizia Marangoni, di Morcone e di Carpino. Poi c’è la tappa più complicata: la scelta del candidato. Non solo Giachetti: molti renziano puntano su un non politico.

IL MESSAGGERO