Andando tra la gente, parlando con le persone si percepisce come stia aleggiando il timore che le responsabilità cadano nel dimenticatoio e che i soli a pagare per i disastri fatti siano come sempre i cittadini. Così gli occhi sono tutti puntati sulla commissione di inchiesta su banca Cis e non sono pochi quelli che si domandano se c’è la possibilità che le risposte che un intero Paese attende arrivino prima dei sei mesi stabiliti dalla legge. Di questo abbiamo parlato direttamente con il presidente della commissione di inchiesta su Cis e le altre banche Gerardo Giovagnoli di rientro dalla missione presso il Consiglio d’Europa e nuovamente in partenza per Seul.
Presidente, cosa risponde a chi si chiede se i lavori andranno veloci al punto di riuscire ad avere una relazione prima della scadenza dei termini previsti dalla legge?
“Mi sollecita una questione che ritengo importante, sono d’accordo anch’io che dal punto di vista morale per il Paese sapere cosa è successo e avere la certezza che chi ha sbagliato paghi sia un tema non di poco conto, anzi fondamentale. Ci tengo però a sottolineare che le finalità di una commissione politica non possono essere quelle di un Tribunale. Mi auguro anche che si possa aprire una stagione nuova dove non ci debbano più essere queste commissioni chiamate ad accertare collegamenti con la politica e controlli del sistema a posteriori”.
Vale a dire che non ci saranno variazioni rispetto alle tempistiche stabilite dalla legge?
“Vale a dire che a meno che non si sia già deciso a chi addossare le colpe, se si vuole fare un buon lavoro, che non si basi sui pregiudizi, i tempi sono già abbastanza stretti. Si devono leggere migliaia di pagine e di documenti, fare audizioni, è poi da tener conto che non si lavora a tempo pieno come invece fa il Tribunale”.
In effetti lei ha sempre ribadito la differenza tra commissione e Tribunale.
“Certo, una commissione di inchiesta come quella che mi onoro di presiedere non fa indagini come il Tribunale dove vi sono prove e si interrogano le persone. L’utilità delle commissioni in generale, e questo lo dico anche in base all’esperienza che ho avuto in precedenza, sta nell’accertare verità che sono più di natura politica che di natura giudiziaria, non siamo giudici che determinano qual è il reato. Si fa una ricostruzione degli eventi, si capisce se c’è stata una impropria sollecitazione della politica sull’economia o il contrario, si fa una descrizione il più possibile veritiera. Il fine è quello di un’attività legislativa, non ci si sovrappone alle inchieste in corso. L’attività del Tribunale è ovviamente prevalente”.
Rimanendo nell’ambito bancario, il fondo monetario internazionale ha scattato una fotografia molto cruda del sistema proponendo una ricetta altrettanto dura. Qual è la sua opinione in merito?
“Il fondo ha una sua ricetta che non ha cambiato nel corso degli ultimi anni, in sostanza di anno in anno ci ripetono la loro valutazione, dal punto di vista di un grande osservatore internazionale certe dinamiche bancarie sarebbero da trattare con un atteggiamento molto tranchant, della serie: facciamo il bail in e la chiudiamo così. Ciò non è evidentemente possibile in uno stato come il nostro dove da anni interveniamo con la dinamica del salvataggio, cambiare sarebbe socialmente intollerabile. Inoltre Carisp è pubblica, non possiamo avere come legislatori la stessa visione del socio di una banca privata o di un commissario che può liquidare e chiudere e chi si è visto si è visto. Io credo che vada introdotto da subito al centro dell’analisi il piano d’uscita, non andiamo da nessuna parte se continuiamo solo a rincorrere le emergenze. Serve un piano industriale prima del sistema e poi dei singoli istituti. L’ottica non deve essere quella di far rimanere due banche ma quella di attrarre nuovi capitali, nuovi soci, eventualmente nuove banche, in una prospettiva lungimirante. La normalità deve tornare ad essere lo sviluppo senza il quale i conti non tornano, dobbiamo essere in grado di attrarre nuove risorse e far circolare nuovi capitali. Per far tornare la fiducia nel nostro sistema è cruciale metterci tutto l’impegno e che ciò avvenga all’insegna della condivisione. Non si può procedere a colpi di macete come si è fatto in questi tre anni dove non è stato dato ossigeno al sistema che ha vissuto solo amputazioni suppostamente per salvare il resto dell’organismo e senza tener conto che a forza di amputazioni si arriva al cuore e si muore”.
Olga Mattioli