San Marino, il gioiellino incastonato tra le colline italiane, terra di torri, libertà e, diciamolo, di una certa ipocrisia fiscale. Mentre il mondo guarda ai dazi americani – quel 10% sull’export verso gli USA che colpisce il Titano – si tende a dimenticare un dettaglio non da poco: l’Imposta Monofase sulle Importazioni (nota come IMI al WTC, che erroneamente la paragona all’Iva), la Monofase sammarinese, una tassa del 17% su tutto ciò che varca il confine, dalla pasta di grano duro italiano al vino toscano, dalle escargot francesi al kebab arabo… Si parla di dazi come se fossero il male assoluto, ma la monofase cos’è se non un dazio mascherato, applicato senza pietà a chiunque, Italia compresa? È un po’ come puntare il dito contro il vicino che ti fa pagare il pedaggio, mentre tu hai già messo un casello davanti casa tua.
Tutto nasce il 22 dicembre 1972 – quasi fosse una risposta all’introduzione in Italia dell’IVA – quando San Marino vara la Legge n. 40, dando vita all’Imposta Monofase sulle Importazioni. L’idea era chiara: proteggere l’economia locale, incentivare la produzione interna e riempire le casse dello Stato. Una sorta di barriera fiscale a tutto tondo, con quel 17% che colpisce ogni importazione senza eccezioni – o quasi (in realtà, alcuni prodotti godono di tariffe diverse e agevolate, ma il principio resta). L’Italia, principale partner commerciale, non la prese benissimo: da un giorno all’altro, le sue merci si ritrovarono tassate al 17%. Forse, non so, avevo 4 anni allora, non ci furono neppure impercettibili mugugni e Roma, quanto Rimini, si adeguò, San Marino incassò e il sistema tenne. Determinò una ricaduta di benessere inimmaginabile su tutta la comunità. Del resto, negli anni ’70 il protezionismo era ancora una pratica accettata, quasi romantica, come il contrabbando dei decenni precedenti…
Gli effetti della monofase si sono visti: portarono sì benessere diffuso, e se, da una parte, diedero una spinta alla produzione locale, soprattutto nel manifatturiero – perché importare se puoi fare in casa e schivare quella tassa? -, dall’altra i consumatori sammarinesi pagarono il prezzo, con costi più alti per tutto, dal pane ai vestiti. Le imprese che vivevano di importazioni, così, si sono ritrovate con un handicap non indifferente, perdendo competitività in alcuni settori. Alla fine si mantenne un equilibrio complicato, tra il desiderio di proteggersi e il rischio di isolarsi…
Oggi, nel 2025, arrivano i dazi americani, quel 10% sull’export verso gli USA. Ma attenzione: il Titano non sbraita contro questa tariffa, non esporta miliardi di euro di automobili negli States. Anzi, quel “solo” 10% è quasi un sospiro di sollievo, una cifra contenuta nel contesto globale, che potrebbe persino aprire prospettive di sviluppo inattese per San Marino. Certo, non tutti la vedono così. C’è chi, per ideologia o per un’avversione personale a Trump – magari perché lo immagina come un cowboy capitalista lontano dalla loro visione del mondo – si scaglia contro questi dazi… Ma almeno, sul Titano, nessuno brucia le Tesla di Musk. Non è tanto la percentuale a dar fastidio, quanto ciò che rappresenta: un simbolo per chi, con un piede ancora nel marxismo senza saperlo, vede qualsiasi cosa un pelo più a destra dell’estrema sinistra come un affronto. È una crociata più emotiva che razionale, come se bastasse agitare lo spettro dei dazi per resuscitare vecchie battaglie e rivedere arcaiche barbe gironzolare… Non mi riferisco a Paride Andreeoli, ovviamente. A proposito, ciao Paride… Aspetto quel pranzetto fra vecchi amici che ci promettiamo da mesi…
Ma torniamo a noi, ai dazi… Eppure, questa situazione potrebbe essere un’occasione per San Marino. La monofase, nata in un’epoca diversa, oggi appare un po’ fuori tempo in un mondo globalizzato. Ha senso mantenere una tassa del 17% su tutto (okay, latte ecc. pagano solo 2%) e tutti, mentre ci si confronta con dazi altrui più leggeri? Non si tratta solo di coerenza, ma di strategia. Il Titano potrebbe cogliere il momento per ripensare la sua fiscalità: non per smantellarla del tutto – le entrate servono – ma per renderla più flessibile, più moderna. I dazi americani, più che un pugno, potrebbero essere uno specchio: un invito a guardarsi in casa, a decidere se restare arroccati dietro uno scudo medievale o aprirsi al mondo con una visione nuova. Il futuro non aspetta, e San Marino farebbe bene a non lasciarselo scappare, magari sfruttando la prossima riforma fiscale annunciata non per ridimensionare ancor di più il potere di spesa dei cittadini (come tutto lascia intendere sia) ma proiettarsi verso un futuro diverso…
Enrico Lazzari