San Marino. Il secolo delle idee assassine … di Don Gabriele Mangiarotti

Robert Conquest, intellettuale scomparso qualche anno fa, ha scritto un libro lucido sulla cultura del Novecento, evidenziando come i pensieri degli uomini non sono rimasti confinati nei libri, ma hanno generato a volte tragedie immani, creando le condizioni per la ammissibilità di comportamenti assolutamente negativi (e qui il solo accenno a stalinismo comunista e nazionalsocialismo credo sia sufficiente).

Ma sorge però una domanda guardando all’oggi e riflettendo su quanto accade, anche vicino a noi, soprattutto di fronte a drammi umani che ci toccano da vicino e a cui non sappiamo trovare risposte convincenti, né, tanto meno, giustificazioni.

E il pensiero va a quanto capita nel mondo, vicino a noi, sia in Italia che in Repubblica. Parto da una considerazione, a mo’ di domanda: «Perché è così difficile sapere, come prescritto dalle norme approvate in tema di aborto, avere notizia di quanti aborti – dopo la prima comunicazione – si sono realizzati in San Marino? Forse perché la legge approvata non ha arrestato il flusso di morte, accelerandolo e amplificandolo, dando ragione a chi sosteneva che le leggi creano anche costume e mentalità?»

«E che cosa accadrebbe se si approvasse qualche norma che introducesse il suicidio medicalmente assistito o la pratica eutanasica come diritto, tra l’altro a cura dello stato?»

Forse riflettere sulle nostre «idee» potrebbe aiutarci a cercare soluzioni rispettose del valore di ogni vita, come portato di una mentalità ragionevole, senza le solite accuse di volere «confessionalizzare» il dibattito.

 

Già Kant affermava: «Ogni uomo ha il diritto di esigere il rispetto dei suoi simili, e reciprocamente è obbligato egli stesso al rispetto verso gli altri. L’umanità in se stessa è una dignità […]. Come l’uomo non può vendere se stesso per nessun prezzo (ciò che sarebbe contrario al dovere della stima verso se stesso), così egli non può agire contrariamente al rispetto che gli altri devono necessariamente a loro stessi come uomini, vale a dire egli è obbligato a riconoscere praticamente la dignità dell’umanità in ogni altro uomo». L’alternativa è quanto un autore contemporaneo (Hoche) afferma: «Tra il medico e il suo dovere fondamentale di preservare la vita altrui, quali ne siano le condizioni, non sussiste una relazione assoluta, ma piuttosto assai relativa. Questa relazione varia nel momento in cui cambiano le circostanze, e deve, per questo, essere riesaminata in quel frangente. L’etica medica non deve essere considerata alla stregua di un modello perennemente immutabile».

Hoche chiarisce: «Nei tempi passati, di prosperità, la questione di giustificare la necessità della spesa per queste categorie di esistenze-zavorra non era così urgente; oggi è diverso, e abbiamo il dovere di occuparcene seriamente […]. In tutti gli stati di mancanza di valore a causa della morte mentale si trova una contraddizione tra il diritto soggettivo all’esistenza e l’utilità e la necessità oggettive».

[…] «L’eliminazione dei morti mentali totali non rappresenta né un crimine, né un atto immorale, né una crudeltà affettiva, ma un atto permesso e utile».

 

Allora forse riprendere il pensiero di un uomo che, per l’amore alla verità ha sacrificato la sua vita potrebbe essere il più utile aiuto alla chiarezza di giudizio. Perché noi non ci stiamo alla logica delle «idee assassine»

 

«Chiediamoci ora se i riguardi dovuti ai sani rendano necessaria l’uccisione di vite innocenti. Una risposta affermativa a questa domanda si basa sul presupposto che ogni vita umana debba avere una certa utilità per la comunità, e che col cessare di quella utilità la vita stessa non si giustifichi più, e possa eventualmente essere distrutta. Anche se si evita di esprimere il pensiero in questa forma radicale, si mantiene pur sempre una diversa valutazione del diritto alla vita per quelli che sono utili e per quelli che sono inutili alla società, trattandosi beninteso, anche in quest’ultimo caso, di vite innocenti. Ma questa discriminazione non è accettabile, altrimenti condurrebbe a conseguenze inammissibili. Per esempio impedirebbe che le vite socialmente utili corressero i normali rischi del tempo di guerra o di altre situazioni di emergenza sacrificandosi eventualmente a favore di vite socialmente meno preziose. Si osserva però che le persone preziose per la società sono quelle stesse che non fanno differenze tra il diritto alla vita degli uni e degli altri, anzi, sono pronte a rischiare la loro vita per i più piccoli: i forti per i deboli, i sani per i malati. […] L’idea di annientare una vita che abbia perduto la sua utilità per la società nasce dalla debolezza, non dalla forza.

Quell’idea, però, deriva soprattutto dal falso presupposto che la vita consista unicamente nell’essere utile per la società.

Si dimentica in tal caso che la vita creata e conservata da Dio possiede un suo proprio diritto all’esistenza, del tutto indipendente dalla sua utilità sociale. Il diritto alla vita è radicato nell’essenza stessa della vita, e non dipende da questi o quei valori. Dinanzi a Dio non c’è nessuna vita indegna d’essere vissuta, poiché la vita stessa è preziosa per lui. La vita più miserabile è degna di essere vissuta dinanzi a Dio, poiché egli è il creatore, conservatore e redentore della vita. Dio considera degno della vita eterna il povero Lazzaro, lebbroso, che giaceva sulla soglia della casa del ricco e al quale i cani leccavano le piaghe: un uomo socialmente del tutto inutile, una vittima di coloro che giudicano la vita secondo la sua utilità sociale. Dove mai si potrebbe trovare il criterio supremo per misurare il valore di una vita, se non in Dio? Forse nella volontà soggettiva di vivere? Da questo punto di vista molte volte un idiota sarebbe superiore a un genio. Forse nel giudizio della società? Se ciò fosse, si scoprirebbe ben presto che il giudizio sull’utilità o l’inutilità sociale di una vita è soggetto alle esigenze del momento e quindi arbitrario, e perciò la condanna allo sterminio colpirebbe ora questo ora quel gruppo di persone. La distinzione tra vita degna e vita indegna distrugge presto o tardi la vita stessa. Dopo aver chiaramente stabilito questo principio, dobbiamo ancora dire una parola sul valore puramente sociale delle vite apparentemente inutili e senza senso. Non possiamo fare a meno di osservare che le vite cosiddette inutili degli incurabili suscitano nei sani, nei medici, negli infermieri e nei parenti, la più intensa volontà di sacrificio per la società e il più autentico eroismo; questa dedizione dei sani ai malati ha dato origine a valori reali di grandissima utilità per la comunità».

(D. Bonhoeffer, Etica, pp. 136-147)

 

E non basta dire che queste sono conseguenze inammissibili, perché il diritto sulla propria fine è una conquista sociale e non implica queste conclusioni aberranti. Ricordate la storia di Eluana Englaro? Come scrive L. Marranghello: «È un’Italia diversa quella che si è svegliata la mattina del 10 febbraio 2009, all’indomani della morte di Eluana Englaro. Non so se da questa storia ne esce un’Italia peggiore. Certamente […], ne escono male i medici, i quali erano certamente autorizzati a fare ciò che hanno fatto. Ma il senso della loro professione è salvaguardare la vita. Certamente non siamo più gli stessi. Il dramma della povera Eluana ci ha costretto a guardarci allo specchio, ad interrogarci sul valore e sul senso della vita» e Maurizio Mori, artefice dell’epilogo di quella storia dolorosa e tragica, così intitola il suo saggio: «Il caso Eluana Englaro. La “Porta Pia” del vitalismo ippocratico ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento».

Certamente, noi non ci stiamo alla logica delle «idee assassine», e preferiamo il «vitalismo ippocratico» e siamo certi che così la società sarà migliore.

 

don Gabriele Mangiarotti