Nel pubblico il ricorso al part-time è minimo, al netto di quello post maternità. Nel privato è molto diffuso; troppo, in quanto di frequente è involontario. Al contrario, quando è richiesto oltre i termini di legge spesso viene negato. Il fenomeno è diffuso soprattutto ove i contratti collettivi sono meno favorevoli. Ciò incide pesantemente sui bilanci familiari: chiesta la parità di trattamento economico in caso di maternità e congedi parentali
Se la stabilità economica è messa a rischio ed il sistema sociale non assiste adeguatamente le famiglie, avere figli diventa una decisione da assumere attentamente. In proposito, una delle richieste sindacali unitarie inoltrate al Governo nella scorsa legislatura è stata riproposta nella scheda consegnata al Segretario di Stato Stefano Canti in occasione di un recente incontro. Al termine dell’illustrazione della relazione in materia di politiche per la famiglia che pochi giorni dopo sarebbe stata dibattuta nella competente Commissione Consiliare, abbiamo colto l’occasione per ripresentare la richiesta di modificare le indennità per maternità e congedi parentali (ex aspettativa post-partum), introducendo un importo minimo da computare anche ai fini previdenziali. Da decenni, queste sono infatti calcolate in base allo stipendio o al reddito dichiarato per le lavoratrici autonome: ciò sfavorisce chi percepisce stipendi bassi, in particolare le donne che lavorano a tempo parziale. Paradossalmente, le donne disoccupate sono le più penalizzate perché, se non percepiscono ammortizzatori sociali a seguito della perdita del posto di lavoro, non hanno diritto a nessuna indennità in caso di maternità. Per noi, i figli devono avere un valore da riconoscere anche sul piano economico, che prescinda dallo status occupazionale. Più in generale, la natalità e l’assistenza alle persone non autosufficienti costituiscono un investimento di interesse pubblico, per il quale non si può scaricare la responsabilità della cura e del sostegno esclusivamente sulle famiglie coinvolte. Da parte sua, la CSdL ha quindi sostenuto nuovamente e con forza queste richieste: l’introduzione di un reddito minimo per l’indennità di maternità e per i congedi parentali consentirebbe di superare una evidente disparità, che va colmata anche sul piano dei diritti previdenziali. Nel settore pubblico il ricorso al part-time, per motivi diversi da quello post maternità, è ridotto, probabilmente perché gli orari di lavoro sono più compatibili con le esigenze familiari. I posti di lavoro sono quasi tutti a tempo pieno, ad eccezione di alcune posizioni specifiche, relative al personale ausiliario, per esigenze di servizio. Nel settore privato assistiamo a tutt’altro scenario: confermando il dato percentuale degli anni precedenti, al 31 dicembre 2024 erano presenti ben 2.883 contratti di lavoro a part-time, peraltro concentrati nei settori dove gli stipendi sono più bassi. Di questi, 2.234 riguardano il genere femminile, ovvero ben il 77,5% del totale. Le donne con orario ridotto sono quindi ben il 30% di quelle occupate. Spesso i part-time sono involontari e discontinui, es. due ore al mattino e altrettante il pomeriggio, e il nastro orario può variare da una settimana all’altra, creando serie difficoltà nell’organizzazione della propria vita personale e familiare. Tali fattori incidono non poco nella pianificazione della genitorialità. Al contrario, quando viene chiesto di svolgere orari part-time per accudire i figli con più di 4 anni di età o famigliari con problemi di salute, tolti i casi documentati che necessitano di assistenza continuativa, non esiste il diritto ad essere “accontentati” e spesso le imprese oppongono un diniego, oppure propongono che l’orario venga svolto al pomeriggio. Se l’esigenza è dovuta alla necessità di dedicarsi ai figli minori, come ben si sa, al mattino questi sono a scuola! Occorre altresì debellare il fenomeno dei part-time fasulli, ovvero “integrati” da ore lavorate in nero. A questo proposito, la CSdL ha rinnovato la richiesta di intensificare i controlli su questa specifica componente del mercato del lavoro. Si tratta di mancate entrate fiscali e contributive: non sono tollerabili e penalizzano in misura consistente le donne anche sul piano previdenziale.
CSdL