La stessa UE ha riconosciuto, durante le fasi negoziali dell’Accordo di associazione, che in tema di lavoro San Marino ha una legislazione adeguata a quanto previsto attualmente nell’acquis. Ma proprio di recente si è tornati a parlare di settimana corta, anche sulla spinta dei sindacati, che vedono in questa possibilità un nuovo obiettivo contrattuale.
Eppure, la settimana corta viene considerata superata o non adeguata in molti Paesi e presso molte aziende. Richiede un progetto organizzativo interno che potrebbe non coincidere con le esigenze della catena produttiva, o con i meccanismi di distribuzione, o con le richieste dei clienti. Invece, l’orario settimanale rimane invariato o leggermente ridotto. Questo vuol dire lavorare di più dal lunedì al giovedì. Nella maggior parte dei casi lo stipendio non viene toccato o, al massimo, viene ridotto di poco. E c’è anche chi obbietta che se c’è più tempo libero, c’è anche maggiore rischio di aumento delle spese domestiche. Per abituarsi alla settimana corta ci vuole una mentalità diversa di gestione del tempo e anche delle dinamiche aziendali, ma tutto sommato piace poco agli stessi lavoratori.
Altra considerazione: settimana corta, o giornata corta? Cioè, possibilità di lavorare qualche ora in meno rispetto all’orario pieno e poi si ha il pomeriggio libero, ma si lavora anche il venerdì. In questo caso, con l’azienda chiusa quasi mezza giornata, come si gestiscono le emergenze, una riunione improvvisa, le necessità di un cliente importante? Sono questioni non da poco.
Ci sono altri modi per lavorare meno, mantenendo lo stesso stipendio e trovando forse l’agognato work-life balance (equilibrio tra lavoro e vita privata)? Ecco allora che arriva la flexi-week, già sperimentata in diverse grandi aziende: il giorno off viene spalmato su tutta la settima, o in due pomeriggi alla settimana, o una giornata intera, che potrebbe non essere per forza il venerdì. Questo diventa possibile quando ci sono team ben affiatati e con una mentalità molto duttile, capaci di organizzarsi sia in base alle necessità aziendali, sia a quelle personali. Molto difficile pensare alla flexi-week sui grandi numeri delle catene di montaggio, ma in altre situazioni potrebbe essere realizzabile.
Ma il problema di fondo rimane sempre l’allineamento del diritto al lavoro al diritto ad un’equa retribuzione, senza discriminazioni di genere, né di estrazione sociale. In questo senso San Marino, in base ai diversi report occupazionali, ha una situazione abbastanza avanzata e rispettosa di questi diritti sociali fondamentali, ma altrove non è così. Basta vedere cosa succede in Italia con il lavoro nero degli immigrati e con la discussione politica sul salario minimo, sempre molto accesa ma per il momento senza risultati. Ci sono ancora ampie fasce di lavoratori con salari da fame, sui 3 o 4 euro all’ora e nessun altro diritto contemplato.
La Francia ha messo fine al dibattito sul salario minimo, considerato antiquato e non dignitoso, introducendo il salario decente. Ovvero un salario con cui si deve poter provvedere ai bisogni di una famiglia composta in media da due figli e due genitori. Ma deve consentire anche di pagare gli svaghi e di mettere da parte una somma per affrontare eventuali emergenze.
Questo significa che chi vive in città metropolitane, dove la vita e gli affitti sono più cari, deve avere un salario più alto rispetto a chi vive in località più piccole e periferiche, dove la vita costa meno. Altrettanto succede per chi ha meno di due figli oppure non ha una famiglia a carico. Aziende internazionali come la Michelin, che ha inaugurato la scorsa primavera il salario decente, ha anche implementato la “protezione sociale universale” per i suoi dipendenti in tutto il mondo: copre l’accesso alle cure, il congedo di maternità/adozione di 14 settimane, il pagamento di un capitale pari ad almeno un anno di stipendio alla famiglia in caso di morte del dipendente e il pagamento di una pensione per i figli fino al termine dell’istruzione superiore.
È ben comprensibile quanto tutto ciò rappresenti una vera rivoluzione, soprattutto nell’attuale contesto socio-politico-economico europeo. Ma chi deve intervenire: lo Stato o l’impresa privata?
Un dilemma che, comunque, rischia di apparire assolutamente arcaico in quanto il problema di fondo è l’innesto di una nuova mentalità culturale e sociale. Non c’è bisogno di nuove leggi, verso le quali si trovano sempre nuovi escamotage di aggiramento; né di battaglie sindacali, che spesso rimangono nella sfera degli slogan. Serve una nuova cultura imprenditoriale. Servono imprenditori illuminati, consapevoli che il dipendente non è uno schiavo, non è una macchina, non è un automa, ma un cittadino che rende molto di più e fa guadagnare l’azienda perché entrambi hanno interessi convergenti. E sicuramente serve uno Stato che sappia cogliere le novità e premiare le aziende che le realizzano.
Rimane un problema di cui non si parla mai, neanche a San Marino: il part time, che è riconosciuto e regolamentato da precise leggi, ma che rimane quasi totalmente un tabù. Sono le donne a sentirne maggiormente l’esigenza, spesso proprio per conciliare esigenze familiari derivanti da figli piccoli o disabili, genitori anziani e ammalati, o altre emergenze domestiche. Ma le aziende non sono mai troppo disponibili a concederlo. Anzi, a volte c’è addirittura il rischio del posto di lavoro.
Angela Venturini.