Rubrica internazionale a cura di David Oddone, giornalista referente Onu per la Repubblica di San Marino
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“I grandi Paesi possono difendersi con le armi; i piccoli Paesi hanno bisogno della protezione delle leggi”. Raphael Lemkin, l’avvocato polacco che ha dato il nome al crimine di genocidio, sapeva bene cosa stava trasmettendo con quella nota mentre si avvicinava ai diplomatici delle Nazioni Unite in vista della prima sessione regolare dell’Assemblea Generale nel 1946. Era un’idea che lo perseguitava ben prima della Seconda guerra mondiale, dai libri di storia che gli leggeva la madre, fino al processo del 1921 al giovane armeno Soghomon Teilerian. Perché, chiese Lemkin al suo professore di diritto, esiste un nome per l’uccisione di una persona, omicidio, ma non esiste per l’uccisione di più persone sulla base della loro identità? Gli orrori della Seconda guerra mondiale, in cui perse quarantanove membri della sua famiglia, affinarono ulteriormente la sua comprensione del fatto che il genocidio – un crimine senza nome – fosse un piano coordinato con diverse azioni volte ad annientare gli individui perché appartenenti a un certo gruppo identitario.
Il 9 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò all’unanimità la Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, il primo trattato sui diritti umani. La Convenzione afferma che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, sia che venga commesso in tempo di pace che in tempo di guerra.
In pochi anni, Lemkin diede un nome al crimine senza nome (usando il prefisso greco genos-, che significa razza o tribù, e il suffisso latino -cide, che significa uccidere), lo definì ulteriormente nella speranza che potesse essere usato nei processi di Norimberga, si recò alle Nazioni Unite per sostenere e contribuire alla stesura della Convenzione e incoraggiò i delegati ad adottare finalmente questo testo fondamentale. Nonostante questo riconoscimento, Lemkin non era tranquillo.”Le nazioni che hanno ratificato la Convenzione sul genocidio devono ora rendere questa convenzione una forza viva nelle loro società, introducendo una legislazione interna appropriata che porterà in sé un grande messaggio educativo di rispetto, amore e compassione per gli esseri umani al di là dei loro confini, indipendentemente da religione, nazionalità e razza”.
Lemkin aveva ragione e il suo appello non potrebbe essere più urgente oggi.Come allora, la ratifica della Convenzione costituisce un primo passo, ma non è sufficiente.La ratifica deve essere seguita da un’attuazione concreta, anche attraverso l’applicazione a livello nazionale di strumenti giuridici e politici volti a identificare e affrontare i primi segnali di allarme e a garantire la responsabilità quando il crimine è stato commesso.
Oggi sappiamo che la commissione di un genocidio è il risultato finale di un processo per il quale esistono segnali di allarme.Sappiamo anche che, indipendentemente dal fatto che gli Stati abbiano o meno ratificato la Convenzione, sono vincolati dal principio che il genocidio è un crimine di diritto internazionale e hanno l’obbligo di prevenirlo e punirlo.Nei 75 anni trascorsi dall’adozione della Convenzione, abbiamo visto che quando la protezione fallisce, fallisce chi ne ha più bisogno. Lo stiamo vedendo oggi, trasmesso in diretta streaming e in live-tweet da più di un luogo in tutto il mondo.Tuttavia, nulla è preordinato e nessun risultato è inevitabile, e l’appello alla prevenzione risuona oggi ancora più forte quando e dove il rischio di questo crimine è più alto.
In questo momento storico, pur riconoscendo le enormi sfide che continuano a ostacolare la nostra capacità collettiva di prevenire e rispondere, dobbiamo anche fermarci a riflettere sulla strada percorsa. Dal momento della sua adozione, la Convenzione ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo del diritto penale internazionale come lo conosciamo oggi.Essa ha definito il crimine di genocidio come la distruzione intenzionale, totale o parziale, di un gruppo razziale, nazionale, etnico o religioso.
La definizione formale del crimine contenuta nella Convenzione è stata successivamente inclusa nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale nel 1998, nonché negli statuti di altre giurisdizioni, come i Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda e le Camere straordinarie in Cambogia.
È stato ratificato o aderito da 153 Stati.Tuttavia, 41 Stati membri delle Nazioni Unite non l’hanno fatto.
Come ogni 9 dicembre, data ormai segnata a livello internazionale come Giornata della commemorazione e della dignità delle vittime del crimine di genocidio e della prevenzione di questo crimine, anche quest’anno continueremo a onorare tutti coloro che hanno perso la vita a causa del genocidio, il “crimine dei crimini”.In questa particolare occasione del 75° anniversario, con l’eredità della Convenzione a portata di mano, esortiamo tutte le nazioni a rinnovare il loro impegno nei confronti della Convenzione sul genocidio come “forza viva” nelle nostre società.C’è molto lavoro da fare, per il quale le lezioni apprese in questi 75 anni devono essere portate alla luce.Lo dobbiamo a tutte le vittime di questo crimine atroce e a coloro che sono in pericolo mentre leggete queste righe.Oggi e domani, tanto quanto – se non di più – di 75 anni fa.
Alice Wairimu Nderitu – Sottosegretario generale e consigliere speciale per la prevenzione del genocidio del Segretario generale delle Nazioni Unite
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