L’Europa alle prese con la geopolitica vaccinale. Da dove nascono le resistenze contro lo Sputnik V

Nella lotta al Covid-19 sono emersi in tutta la loro evidenza i limiti della cultura politico-strategica dell’Unione Europea e soprattutto quelli del suo stato più forte, che è la Germania. Ovunque, e certo l’Italia non ha fatto eccezione, si è faticato ad inquadrare la questione del contrasto alla pandemia come un problema di sicurezza nazionale.

La categoria cui si è fatto più frequentemente ricorso è stata invece quella della protezione della salute pubblica. Di qui, non solo le insufficienze di un approccio sul quale hanno pesato prevalentemente considerazioni di ordine burocratico ed economiche, ma anche l’incomprensione delle scelte fatte da altri paesi, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e la stessa Russia, che hanno tenuto conto nelle proprie scelte di un novero più ampio di valutazioni.

Di fronte al disastro sanitario – di cui, a quanto oggi sappiamo da Bob Woodward, Trump aveva avuto contezza fin dalle fasi iniziali, essendosi confrontato sull’argomento anche con il presidente cinese Xi Jinping – l’America ha cercato di limitare le chiusure, inondato l’economia di contante e contestualmente varato un programma emergenziale di accelerazione della ricerca farmaceutica, il cosiddetto Warp.

La Gran Bretagna ha provato a fare lo stesso, seppure con strumenti ovviamente meno potenti. Ed il risultato è il vaccino AstraZeneca, che è sicuramente molto meno efficace di quelli americani (e, per la verità, anche dello Sputnik V), ma che è stato somministrato a massa, permettendo di stroncare contagi e decessi, che il 21 gennaio scorso avevano raggiunto il picco dei 1850 morti in 24 ore.

Non solo: Boris Johnson ha proposto all’Uefa di spostare sul suolo britannico lo svolgimento del prossimo campionato europeo di calcio, con stadi aperti al pubblico, mentre sul Continente al momento ci sono poche speranze di un imminente ritorno alla normalità.

Anche Israele, altro paese con spiccata sensibilità strategica, ha anteposto la sicurezza al risparmio, provvedendo ad accaparrarsi i vaccini migliori senza preoccuparsi di pagarli a cifre considerevolmente più alte, ed ha analogamente stimolato la ricerca, esplorando senza remore anche cooperazioni internazionali esterne al bacino geopolitico di riferimento.

Gli esiti, anche in questo caso, sono stati spettacolari: gli israeliani hanno riaperto il paese, vanno al mare dallo scorso 20 marzo, vaccinano anche gli stranieri in visita e la loro industria farmaceutica sta sperimentando già i vaccini della prossima generazione, a somministrazione orale.

E poi c’è la Russia, che ha investito del compito di studiare degli antidoti la propria comunità scientifica, coinvolgendo anche le capacità specialistiche delle forze armate, dispiegate in Italia un anno fa non per far dello spionaggio, come pure qualcuno ha curiosamente sostenuto, ma per sostenere un paese ritenuto non ostile, raccogliendo nel frattempo campioni di uno dei ceppi più aggressivi del Covid.

La prima scatola del vaccino russo Sputnik V a San Marino
© FOTO : ISTITUTO PER LA SICUREZZA SOCIALE DI SAN MARINO / ANDREA COSTA

Da questo sforzo è nato il primo vaccino brevettato contro il Sars-Cov-2, che è appunto lo Sputnik V, attualmente ritenuto il più valido tra quelli che sfruttano il principio tradizionale dell’inoculazione di dosi attenuate del virus.

La differenza di approccio prescelto dai vari governi ha creato internazionalmente delle posizioni di vantaggio e svantaggio, in dipendenza dell’acquisizione di un vaccino prodotto od importato in quantità sufficienti e di altri fattori, come la capacità di esportarlo.

Da questa asimmetria sono derivati importanti conseguenze geopolitiche. Per mitigare il prestigio conseguente alla brevettazione del primo antidoto mondiale, ad esempio, lo Sputnik V è stato fatto oggetto di un’aggressiva campagna di denigrazione, basata sull’applicazione al contesto pandemico di alcuni stereotipi che in Occidente trovano facile ascolto. A tratti, si sono registrate vere e proprie forme di aperta derisione.

Al britannico AstraZeneca è andata appena meglio. Provenendo dal Regno Unito, infatti, ha subìto attacchi reputazionali veri e propri solo nell’Europa continentale, probabilmente da ricondurre al complesso contesto determinatosi in seguito alla Brexit, nel quale specialmente tra tedeschi ed inglesi non sono rari i colpi sotto la cintola.

A riprova di questa peculiare dinamica euro-britannica, molto significativamente, il farmaco creato dall’Università di Oxford non è stato bersagliato dagli americani, che hanno invece da poco fatto sapere di ritenerlo comunque molto efficace nel prevenire gli esiti letali del Covid, offrendo una sponda a Londra.

AstraZeneca, seppure con qualche ritardo, ha ottenuto le autorizzazioni necessarie al proprio impiego negli Stati membri dell’Unione Europea. Mentre per lo Sputnik V la procedura necessaria dovrebbe essere completata soltanto nella tarda primavera, quando l’emergenza sarà probabilmente meno acutamente avvertita.

La differenza nell’atteggiamento tenuto dalle autorità brussellesi nei confronti del farmaco britannico e dell’antidoto russo risiede con forte probabilità nelle raccomandazioni di parte americana a non servirsi di quest’ultimo.

Ma cosa fa veramente paura dello Sputnik V, che pure diverse regioni italiane vorrebbero utilizzare al più presto per comprimere i tempi di immunizzazione delle rispettive popolazioni?

Il vaccino contro il coronavirus russo, Sputnik V, è a San Marino
© FOTO : ISTITUTO PER LA SICUREZZA SOCIALE DI SAN MARINO / ANDREA COSTA

Viene nella maggior parte dei casi chiamato in causa il rischio di creare una forma di dipendenza dalla Russia nel delicato campo della sicurezza sanitaria, come se Mosca potesse un giorno esercitare pressioni sui paesi acquirenti equiparabili a quelle che contrassegnarono in passato la gestione delle forniture di gas all’Ucraina.

Alcuni elementi di fatto tuttavia non consentono di ritenere realistica questa ipotesi. La Russia infatti in realtà non esporterebbe il suo prodotto, né tanto meno lo donerebbe, a differenza di quanto fanno le grandi aziende farmaceutiche cinesi nel Terzo Mondo. Verrebbe invece a produrlo in Europa, come già fa in diversi altri paesi del pianeta.

In pratica, delocalizzerebbe. Non sarebbe quindi in grado di bloccare la produzione avviata nel territorio di qualsiasi paese europeo, non esercitandovi la propria sovranità ed esponendosi anzi alla possibilità teorica di subire l’esproprio delle capacità create con i partner locali. Non ci sarebbero manopole da girare per interrompere l’ipotetico flusso di medicinali.

Il punto, allora, è evidentemente un altro. La sensazione è che gli ostacoli frapposti al vaccino russo rientrino piuttosto in una strategia sanzionatoria, il cui vero obiettivo non sarebbe quello di proteggere l’Europa occidentale da chissà quale influenza, ma piuttosto quello di privare di risorse alcuni settori della ricerca e dell’economia russa.

Per gli accordi di produzione dello Sputnik V è infatti prevista la corresponsione di un corrispettivo. Ed è probabilmente proprio questo l’oggetto del contendere. Sarebbe opportuno spiegarlo in modo laico all’opinione pubblica, senza cedere ad isterie ideologiche.

In gioco, non è la sicurezza dell’Unione Europea, ma un’altra cosa: ovvero, la sua adesione alla politica della massima pressione che l’amministrazione Biden pare intenzionata ad adottare nei confronti della Russia, senza peraltro ricompensare i paesi del Vecchio Continente per il sacrificio che dovranno sostenere, oltretutto dopo aver a lungo confidato nella prontezza delle forniture americane che stanno tardando. It.sputniknews.com