LUCA LAZZARI (SU): LETTERA APERTA AGLI INDEBITATI DI DOMANI

Non è da me far l’uccello del malaugurio o gettarmi in vaneggiamenti profetici, ma questa cosa io la do per sicura: a forza di far finta che va tutto bene il Paese finisce dritto alla bancarotta e chi, come me, ha da campare ancora un po’ di anni gli tocca ereditare un debito pubblico che non si ripaga nemmeno con la vita di lavoro di un’intera generazione. E siccome l’avvenire è una questione a cui per natura partecipano solamente coloro i quali ne conservano ancora una misura considerevole, ne consegue che giovani e neoadulti,  se non hanno interesse a sapere cosa significhi fare una vita di stenti, bisogna che al più presto si levino dal torpore mentale della postmodernità e che imparino ad aiutarsi gli uni con gli altri. E non per senso di carità cristiana, tanto più che ognuno nel suo sta molto meglio, ma per non tradire quell’ideologia dell’egoindividualismo che tutti abbiamo così ben coltivato in quest’epoca di antropologia televisiva. Ci tengo a precisare che per questa faccenda del debito io non è che ce l’abbia con qualcuno in particolare. Che ne so, per esempio, con Gabriele Gatti. Certo, lui è il nostro sovrano più durevole. Ma sbaglia chi ne vorrebbe fare il capro espiatorio da sacrificare. È un inganno della ragione quello di ricondurre tutti i mali di un popolo ad un solo uomo. Ecco perché, per esempio, l’antiberlusconismo non riuscirà mai a vincere Berlusconi. E poi Gabriele Gatti, checché se ne dica, a quegli scriteriati venuti prima di noi ha venduto un sogno – quello della ricchezza facile, per intenderci – che li ha fatti godere per davvero, mica per finta. E anche se loro sapevano che quel sogno li avrebbe fatti finire dentro ad un burrone, non di meno sono voluti arrivare fino alla fine del sogno. Ma per quel poco o tanto che il sogno è durato se la sono spassata parecchio. Poco lavoro per molti e molto denaro per (quasi) tutti. E poi moltissimo denaro per pochi. Ma quando ci si bagna nell’abbondanza non si perde certo tempo a misurare i rapporti materiali. La cosa importante in fin dei conti è che il marchingegno economico porti qualcosa fin dentro le tasche di tutti. E si può ben dire d’essere andati oltre ogni aspettativa se a un certo momento gli zoticoni di ieri, liberati dal lavoro, hanno preso a vivere come degli antichi greci: cioè senza fare un cazzo. Qualcuno obietterà che perlomeno gli antichi greci badavano anche a sviluppare la loro civiltà mentre da noi ci si assassina solamente nell’edonismo. Poco importa: certo, la filosofia, l’arte sono cose belle, ma anche la ricerca del piacere ha una sua dignità. Anche se certe volte a vedere il modo volgare in cui qualcuno vive la ricchezza verrebbe da prender sul serio l’insegnamento di San Francesco d’Assisi. Comunque, più mi arrovello in questo problema del debito e più mi convinco che Gabriele Gatti sia (stato) un grande statista. Lui c’ha fatto conoscere e amare l’effimera concretezza del denaro, e io lo voglio proprio ringraziare e gli voglio dire che se dovesse sentirsi di non farcela a cavarci dal burrone non si dia troppa pena. Mica gli possiamo chiedere che tutto ricominci daccapo e si torni a godere come prima. Fossi in lui, se le cose dovessero mettersi troppo male mi farei da parte senza farmi tanti scrupoli, che uno poi magari fa tanto per gli altri e quelli neanche gli sono riconoscenti.
Ma torniamo al debito: i nostri soldi sono quasi finiti e quei pochi che ci avanzano li vogliono gli italiani perché sostengono che li abbiamo rubati, o che comunque non li meritiamo. Mettiamo pure il caso che i soldi siano rubati, ma chi l’ha detto che rubare è reato? Tutto sta a vedere a chi si è rubato. Se si ruba ai ricchi non si fa reato, anzi si compie un passo avanti verso la venerabilità. Ma forse è agli italiani tutti che abbiamo rubato, cioè anche agli italiani poveri. In questo caso qualche Pater, Ave, Gloria da recitare tutti i giorni per un po’ di giorni dovrebbe bastare a redimerci. Sì perché in fondo gli italiani mica sono brava gente. Loro non solo rubano ma fanno anche di peggio. Andate per esempio a leggervi cosa combinarono nella guerra d’Abissinia.  Ma se – come qualcuno ipotizza – in questi anni avessimo fatto le belle lavanderine della mafia allora saremmo proprio dei criminali senza remissione alcuna, perché i soldi sporchi si fanno sulla disperazione dell’umanità sofferente. Ora, uno come me, ammalato di realismo, al limite potrebbe anche fregarsene del debito. So che la futura umanità socialista o l’oltreuomo nietzscheano sono di là da venire. E ringrazio Dio già a poter vivere in tempo di pace e ad avere un piatto di minestra tutti i giorni. Ma dopo aver visto ‘sti stolti egoisti nati a metà del secolo scorso pulirsi il culo con i contanti, l’idea che poco più avanti ad aspettare me ci sia invece una vita da poveretto mi deprime terribilmente. Cerco anche di convincermi che in fondo il denaro è il male del mondo e che se torna la miseria tornano più belli anche gli uomini. Però neanche questa romantica idea pasoliniana mi persuade ad assumere un debito che non ho contribuito a fare. Sicché a questo punto ciò che sarei disposto ad accettare senza brontolare troppo è un avvenire sterile, privo cioè di opportunità ma anche di patimenti. Ergo bisogna impedire che il debito cresca. E qui veniamo alla ragione di questa mia lettera: propongo a chi condivide il mio stesso dato anagrafico di creare un fronte generazionale interpartitico, in cui non si ragioni troppo di ideologie, con l’unico obbiettivo di mettere in salvo le nostre chiappe. Come fare? Oramai si è accertato che il libero imbroglio non funziona più, cioè, per funzionare funziona, ma a insistere si rischierebbe troppo. Neanche il liberissimo mercato funziona più, se ne sono accorti anche gli americani. Allora noi si deve trovare il coraggio di tornare indietro nella storia a prima del laissez-faire. Ci si è abituati talmente in fretta all’economia dell’individualismo – e nel nostro caso specifico anche del privilegio parassitario – che seccherebbe a parecchi (soprattutto ai più ricchi) ritrovarsi di nuovo lo Stato tra i coglioni. Invero, c’è già chi sta facendo cantare le sirene, perché le sirene cantano sempre quando ci si avvicina ad un tempo storico penoso; io, per esempio, ho sentito cantare quelle dell’Associazione ECSO, una stecca dietro l’altra producono una melodia posticcia e improvvisata dietro alla quale ci stanno solamente gli interessi dei consorzi di capitale. Come avrete capito da voi sono molti i nemici da vincere per evitare che il Paese si disintegri. Ma non possiamo non affrontarli. Perché in questa partita non si gioca solo la sovranità della Repubblica più antica del mondo, ma anche il destino della comunità che l’ha sorretta per 1708 anni.

Luca Lazzari – Sinistra Unita

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