Rimini, “caso Bernardini” verso la chiusura in Corte d’Assise, la difesa: “Non fu omicidio, ma una scelta condivisa. Lui voleva morire con lei”

L’ultimo atto del processo a Filippo Maini si è consumato nell’aula della Corte d’Assise di Rimini, dove l’ex infermiere 80enne è accusato dell’omicidio della moglie, Luisa Bernardini, avvenuto a Riccione il 22 giugno 2020. Un gesto estremo che per la difesa sarebbe nato da una sofferenza condivisa e da una decisione maturata nel tempo, e che invece per la Procura rappresenta un delitto volontario, figlio di un egoismo travestito da amore.

Secondo la ricostruzione dei legali, l’anziano non avrebbe agito per crudeltà, ma per dare seguito a un’intesa silenziosa con la consorte, affetta da una grave forma di demenza senile che ne stava minando dignità e lucidità. A rafforzare questa tesi, la difesa ha fatto leva sul tentato suicidio dell’uomo subito dopo i fatti – gesto che a suo dire proverebbe la volontà di compiere un patto estremo – e su un messaggio scritto a mano, lasciato accanto ai farmaci con cui Maini tentò di togliersi la vita, in cui si raccontava il gesto come un “atto d’amore”.

Il punto centrale, ora, resta la volontà della vittima: fu consapevole o meno di ciò che stava accadendo? La difesa ha portato a sostegno una serie di testimonianze, comprese quelle dei figli della coppia, dalle quali emergerebbe un desiderio più volte espresso dalla donna nel tempo: quello di non sopravvivere a una condizione umiliante e irreversibile, come già visto con la propria madre, anch’ella colpita da una malattia degenerativa. Per l’avvocato di Maini, proprio questo contesto e l’intesa di lunga data tra i coniugi configurerebbero un caso di “omicidio del consenziente”, una fattispecie distinta, meno grave e prevista dal codice penale con un trattamento sanzionatorio più mite.

Tuttavia, la Procura ha tracciato una linea netta. Secondo l’accusa, la donna non sarebbe stata in grado di esprimere un consenso autentico, poiché priva della lucidità necessaria a comprendere il significato e le conseguenze della morte. Il quadro dipinto dall’accusa parla di un uomo incapace di sopportare il progressivo deterioramento della moglie, mosso più dal desiderio di liberarsi da quella convivenza carica di dolore che da un reale altruismo.

Il pubblico ministero ha quindi richiesto una condanna a 21 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato, mentre la difesa ha chiesto che venga riconosciuta l’attenuante del consenso e la sospensione condizionale della pena, fissata a 4 anni.

Oltre al nodo giuridico, il processo ha messo a nudo un vuoto normativo ancora irrisolto in tema di fine vita, alimentando un dibattito che travalica il singolo caso e chiama in causa i limiti della legge nel riconoscere la volontà e la dignità di chi soffre. Se la Corte dovesse accogliere la tesi difensiva, potrebbe aprirsi uno scenario inedito per la giurisprudenza italiana.

La sentenza è attesa nelle prossime settimane. In gioco non c’è soltanto il destino giudiziario di Filippo Maini, ma anche una riflessione profonda su come la giustizia interpreta il dolore, la libertà e il diritto di scegliere fino all’ultimo istante.